Quattro bohèmien dei nostri giorni all’Opera di Roma

La regia di Àlex Ollé cambia epoca all’opera di Puccini ma ne rispetta i valori veramente importanti 

Boheme, Opera di Roma
Foto di Yasuko Kageyama
Recensione
classica
Teatro dell’Opera di Roma
Bohème
13 Giugno 2018 - 24 Giugno 2018

Murger aveva ambientato il suo romanzo nella sua città e nel suo tempo, la Parigi degli anni intorno tra 1840 e 1850. È probabile che Puccini, scrivendo la sua opera, abbia pensato alla città e ai tempi in cui aveva trascorso la sua giovinezza come studente e come artista, la Milano del periodo della Scapigliatura.

Àlex Ollé e i suoi collaboratori – Afons Flores per le scene, Lluc Castells per i costumi e Urs Schönebaum per le luci – l’hanno ora messa in scena nella nostra epoca e nella nostra città, perché è sicuramente una città italiana quella che si vede in scena, come rivelano le divise dei carabinieri: una qualsiasi città italiana, che potrebbe essere sia Torino, dove quest’allestimento è nato nell’autunno 2016, sia Roma, dove è giunto ora, perché le moderne periferie urbane in cui i protagonisti si sono trasferiti, lasciando la loro ottocentesca soffitta, sono più o meno uguali dappertutto. Palazzoni costruiti da poco e già degradati, con file di finestre tutte uguali, dietro cui si indovinano stanze piccole e sovraffollate, le cui mura diventano trasparenti per permetterci di osservare la vita dei quattro giovani artisti e delle loro compagne.

Foto di Yasuko Kageyama

Il regista catalano non ha bisogno di cambiare pressoché nulla nell’azione, perché il nostro mondo non è poi così diverso da quello della Parigi e della Milano di allora, dove già stava nascendo il mondo moderno. Non c’erano i pc e i condizionatori che vediamo ora in scena, ma il linguaggio che Illica e Giacosa prestano ai loro giovani non stonerebbe – tranne poche parole desuete – sulla bocca dei giovani di oggi. Soprattutto sono sempre gli stessi i loro sentimenti, gli amori giovanili, la fragilità, il percorso dall’età della spensieratezza alla scoperta della durezza della vita. Anche i comportamenti sono simili: Ollé si limita a eliminare quei gesti falsi, manierati ed esagerati, che si sono incrostati nella recitazione dei cantanti lirici, e a sostituirli con azioni più vere, vive, spontanee, spigliate. Sorprende questa capacità di lavorare sul dettaglio da parte del condirettore artistico della Fura dels Baus, che ci aveva abituato – ma ormai i tempi sono cambiati – a spettacoli affidati a macchine sceniche iperboliche, dove la recitazione contava ben poco.

E se i giovani artisti si arrotolano uno spinello e lo offrono anche al vecchio Benoît, che ancora corre la cavallina, non c’è da scandalizzarsi, perché anche allora in quegli ambienti scorreva molta droga. Invece qualcuno si è scandalizzato e ha fischiato gli artefici della messa in scena, quando sono usciti al proscenio alla fine dell’opera: erano solo pochi fischi, ma anche gli applausi sono stati pochini, troppo pochi per uno spettacolo così bello e anche molto attento al dettato degli autori, molto più attento di tante regie tradizionali che soffocano Puccini sotto una patina di grigia routine.

Anche musicalmente è un’edizione di buon livello. Quanto ai cantanti, è giusto sottolineare l’ottima dizione di tutti, italiani e stranieri, che permetteva di capire quasi ogni parola del libretto. La rumena Anita Hartig è la Mimì del momento e ha interpretato questo personaggio a Parigi, Vienna, New York, Berlino. È molto musicale, precisa e attenta alle indicazioni di Puccini, ma nel primo atto la voce sembra piccolina, il timbro povero, i colori a sua disposizione limitati. Forse è il nervosismo del debutto, forse è la preoccupazione per il difficile do acuto che l’attende alla fine dell’atto, dove infatti scivola malamente. Negli ultimi due atti, superata la tensione, la voce si espande meglio, l’interprete si scalda un po’, ma resta una piccola giovane donna, non si trasforma mai in una prima donna operistica: questo naturalmente è un apprezzamento positivo. L’ucraina Olga Kulchynska è una Musetta provocante e sensuale. Sicuramente l’aiutano le phisique du rôle e soprattutto la voce piena e calda, che resta tale anche nelle agilità e negli acuti: non la solita ochetta dalla vocina petulante, che trasforma il personaggio in una macchietta ridicola, ma una donna sicura del proprio fascino femminile e capace di usarlo per i propri fini.

Mimì, foto di Yasuko Kageyama
Mimì, foto di Yasuko Kageyama

Il reparto maschile era interamente italiano: Giorgi Berrugi (Rodolfo), Massimo Cavalletti (Marcello), Simone Del Savio (Schaunard), Antonio di Matteo (Colline). Buone – non straordinarie – voci italiane, con relativi pregi e difetti: una certa genericità espressiva, una certa tendenza a far sentire che hanno tanta voce anche dove non sarebbe necessario, una certa indisciplina ritmica, che in qualche occasione li porta anche a perdere la sincronia con l’orchestra. Ma anche cose molto buone: per esempio, “che vuol dire quell’andare e venire, quel guardarmi così” cantato da Rodolfo con voce veramente “strozzata dallo sgomento”, come chiedono gli autori.

Rodolfo e Mimì, foto di Yasuko Kageyama
Rodolfo e Mimì, foto di Yasuko Kageyama

Forse l’ungherese Henrik Nanási avrebbe potuto tenerli più in riga, ma è giovane e non ha ancora il prestigio e l’autorità per riuscire in questa “mission impossible”. Per il resto la sua direzione è ottima. Chiede e ottiene dall’orchestra, in forma smagliante, un’attenzione ai tanti dettagli che Puccini, riteneva evidentemente importanti, se si è disturbato a scriverli. E non va in cerca di farfalle sotto l’arco di Tito, ma rende tali dettagli fondamentali ai fini espressivi, perché arricchiscono le situazioni e le psicologie dei personaggi di commenti molto penetranti. La presenza dell’orchestra è continua e protagonistica, ma mai prevaricante – anche il volume del suono è molto contenuto – e le voci vengono sempre attentamente e amorevolmente sorrette. Il risultato è un’interpretazione, che può anche essere vivace e divertente – quando si tratta degli scherzi goliardici dei protagonisti – ma la cui cifra dominante è delicata e intimistica, con grande attenzione a quei piccoli sobbalzi del cuore e a quei sentimenti molto normali e comuni, che però rappresentano la vita di ognuno noi.

Di buon livello i comprimari, in particolare Matteo Peirone (Benoît e Alcindoro). Un po’ grigia questa volta la prestazione del coro ma ottima quella della Scuola di Canto Corale del teatro dell’Opera. 

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