Quattro belle voci per l’Ernani all’Opera di Roma

Una buona edizione dell’opera verdiana, soprattutto per merito delle voci. Senza lampi la direzione di Marco Armiliato. Ricca la scenografia ma povera di idee la regia, firmate entrambe da Hugo de Ana

Ernani (Foto Fabrizio Sansoni)
Ernani (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Ernani
03 Giugno 2022 - 11 Giugno 2022

Lo scorso ottobre la misconosciuta Giovanna d’Arco  era stata una vera scoperta e a febbraio anche la Luisa Miller  era apparsa in una nuova luce. Forse ci eravamo abituati troppo bene e ci attendevamo chissà che da quest’ Ernani,  che è stata sicuramente  di buon livello ma non ha entusiasmato, anche perché era obiettivamente difficile reggere il confronto con l’Ernani  diretto all’Opera da Riccardo Muti nel 2013.

A Marco Armiliato, al suo debutto al Costanzi, va innanzitutto riconosciuto il merito di aver presentato un’edizione completa dell’Ernani  e anche di avergli dato una bella tinta verdiana, un po’ generica ma d’effetto. Tuttavia queste interpretazioni di Verdi, basate quasi interamente su passioni spinte all’estremo ed espresse con dinamiche eccessive e con ritmi serratissimi, hanno fatto il loro tempo e ormai sanno di routine.  Tutto è sempre iperdrammatico e tale povertà di sfumature rischia di rendere uniforme e monocorde l’Ernani,  le cui diverse e contrastanti situazioni drammatiche il trentunenne Verdi aveva invece reso con una ben più ricca palette espressiva. Anche un’opera giovanile come questa - la quinta di Verdi - è molto più varia di come l’ha fatta ascoltare Armiliato: non è infatti sempre corrusca e brusca ma ha anche momenti meditativi, sospesi, sognanti, dolenti, introversi, perché è la storia di un romantico amore impossibile tra due giovani. Anzi gli amori destinati a restare irrealizzati sono ben quattro, poiché anche Carlo e Silva amano, seppure in modo “sbagliato” secondo i canoni del Romanticismo.

I tempi velocissimi e le dinamiche molto marcate di Armiliato non causano alcun problema all’orchestra, apparsa in ottima forma, ma mettono talvolta in difficoltà il coro e spesso costringono i solisti a cantare forte per non farsi coprire dall’orchestra. Spesso, ma non sempre. Soltanto in un paio di momenti il protagonista Francesco Meli sforza un po’ troppo la sua voce, ma per il restante 99% dell’opera canta con eleganza e morbidezza, da vero tenore romantico: d’altronde le sue qualità sono ben note. Non erano note, almeno a Roma, quelle del soprano americano Angela Meade, che ha possibilità pressoché illimitate: voce piena, omogenea e ben timbrata, fiati interminabili, grande potenza ma anche pianissimi’ limpidi, puri e delicati. Questa volta, forse spinta dalla direzione di Armiliato, ha puntato soprattutto sulla fenomenale potenza della sua voce e il personaggio di Elvira ne è uscito un po’ appiattito. Mettiamo in conto all’emozione del debutto le agilità approssimative della sua celebre (e difficilissima) aria d’entrata “Ernani, Ernani, involami”.

Ludovic Tézier (Don Carlo) è un baritono verdiano ideale per il bel colore brunito, il fraseggio vigoroso e l’ottima dizione, che gli permette di ben scolpire le parole. Evgeny Stavinsky è un basso dalla voce un po’ chiara e non molto potente (d’altronde nasce come cantante mozartiano e rossiniano) però coglie perfettamente non soltanto i brevi momenti in cui Silva manifesta la sua vecchiaia, la sua debolezza e la delusione per il suo amore tradito, ma dimostra anche che non c’è affatto bisogno di una voce possente e tonitruante per esprimere il lato oscuro di questo e personaggio perfido e implacabile. Questo bel quartetto di protagonisti è stato la carta vincente di quest’edizione dell’Ernani.

 Regia, scene e costumi di Hugo de Ana erano (con qualche modifica) quelli che si erano già visti a Roma nove anni fa in occasione dell’Ernani  diretto da Muti. L’imponente scenografia consiste di monumentali ed enormi edifici marmorei di stile rinascimentale, accostati o sovrapposti gli uni agli altri e percorsi da crepe, che emanano un senso di oppressione e insieme di precarietà, in sintonia con lo spirito dell’opera. Ma la regia dello stesso De Ana è statica e impacciata e lascia spesso i solisti e il coro abbandonati a se stessi. E quando de Ana gli fa fare qualcosa, si resta a dir poco perplessi. Ernani, quando nella sua cabaletta del primo atto canta “O tu che l’alma adora, vien, la mia vita infiora”, snuda la spada con piglio guerresco: ma perché, se sta cantando un estatico sogno d’amore? Infatti resta lì con la spada in mano e non sa che farsene. Lo stesso Ernani nel suo secondo duetto con Elvira le rivolge queste parole piene di passione: “Mi perdona, fu delirio, t’amo, sì t’amo ancor”, restandosene tranquillamente seduto, mentre lei se ne sta in piedi a qualche metro di distanza: che amore romantico è questo? E si potrebbero moltiplicare gli esempi di queste discrepanze tra la regia e ciò che il libretto e la musica esprimono.

Gli spettatori - tra cui molti erano i turisti, a causa del ponte festivo - non hanno lesinato agli applausi, soprattutto a tenore, soprano e baritono.  

 

 

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