Nuova opera a Berlino
Alla Staatsoper Kopernikus del canadese Claude Vivier e la première di Violetter Schnee di Beat Furrer
La proposta di titoli di teatro musicale recenti o nuovi di zecca non è, nelle maggiori maison d’opéra berlinesi, un fatto sporadico. Capita perciò, in due giorni limitrofi, di poter assistere – per merito della Staatsoper Unter den Linden a una realizzazione di Kopernikus (1978-79), unico lavoro per le scene del canadese Claude Vivier (1948-1983), e alla première di Violetter Schnee, una commissione del teatro allo svizzero Beat Furrer (1954).
Al di là dei quarant’anni di differenza, si tratta di due lavori molto differenti, a partire dell’impianto strumentale: Kopernikus ha un organico da camera, timbricamente molto caratterizzato (tre clarinetti, due ottoni – tromba e trombone – più oboe e violino, nonché percussioni agite a turno dai performer), e una corrispondenza ondivaga entro gli insiemi di voci e personaggi, mentre la novità di Furrer sfrutta l’orchestra odierna in tutti suoi estremi (di comportamento per transizioni continue o per opposizioni nette, di risorse timbriche) e accenna solo per un performer scenico una stratificazione di più funzioni drammatiche.
Il lavoro di Vivier è una visione lirico-immaginifica di un rito di passaggio, che quest’allestimento mantiene ambiguamente nelle due direzioni (dalla vita alla morte, o dalla morte/non esistenza alla vita); il perno della trasformazione rituale sarebbe Agni, una sorta di Alice in Wonderland, che scopre – grazie alle sette persone scenico-vocali – lo spirituale, il sogno, insomma una dimensione che trascende la realtà, ma che con la realtà mantiene un rapporto di visione "altra": non per caso il titolo prende il nome del personaggio che, col suo intervento, apre una nuova prospettiva e schiude ad Agni una nuova percezione del cosmo. Gli altri personaggi sono coerenti a una trasfigurazione fantastica della realtà: Mozart e la Regina della Notte, il mago Merlino e Lewis Carroll, la madre di Agni e Tristano+Isotta fusi in uno stesso performer.
Dato che la lingua del libretto – dello stesso Vivier – è essa stessa fantastica, vagamente imparentata alle glossolalie artaudiane, e gli strati vocali-verbali si sovrappongono più spesso di quelli strumentali, più inclini invece alla monodia eterofonica in una linea stilistica che ricorda un Messiaen sinuoso ed elastico meglio del venerato maestro Stockhausen, l’azione si avvicina appunto alla visione paratattica, e da qui al rituale eseguito da un collettivo, entro il quale a turno ogni performer ha breve protagonismo. Wouter Van Looy l’ha collocata in uno spazio cameristico – la Vecchia Sala Prove Orchestrali – occupato al centro da un vano ellittico fatto di pareti traslucide, ora trasparenti ora riflettenti, attorniato da non più di 80 sedie – tutte differenti! – per il pubblico; giocando benissimo con fascinose luci, diffuse anche da dietro le finestre chiuse della sala, la regia ha usato al meglio l’articolazione tra il dentro e il fuori di quel vano.
D’altronde, nel suo assetto lirico-visionario e non-drammatico, Kopernikus sembra assai una "opera da registi", chiamati a cimenti d’inventiva per visualizzare quel nodo onirico: va riconosciuto al team registico (da citare anche Sascha van Riel per scene e design luci, Johanna Trudzinski per i costumi, Benjamin Wäntig per la drammaturgia) di aver rischiato con una dimensione strettamente cameristica, intima, non eccessivamente estroversa, centrando una Stimmung suggestiva dell’allestimento. Molto bravi tutti gli interpreti, sia vocali sia strumentali, diretti da Errico Fresis, nonostante la giovinezza e l’intento formativo del progetto (quasi tutti fanno parte di un’Opera-Studio internazionale, sostenuta presso la Staatsoper da una fondazione), e calorosissima l’accoglienza del pubblico che ha gremito la piccola sala.
Violetter Schnee di Furrer, in confronto, presenta un nucleo drammatico come tale, ma tende a sospenderlo o a decostruirne la sintassi secondo la non nuova formula dell’incombenza, del ricordo della situazione drammatica, o della combinatoria paratattica di differenti risposte rispetto ad essa. L’elemento neve, con la durezza o il senso di pericolo e di isolamento che genera, può naturalmente esser letto quale simbolo, ma prima di approdare a questa lettura la drammaturgia ce lo propone dentro un’esperienza mediata, una meta-visione: il celebre quadro Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio è descritto – con crescenti profondità e definizione di dettagli – da Martina Gedeck, in un ambiente che le scenografie scorrevoli svelano essere il museo viennese in cui è conservato, mentre le ingegnose proiezioni evocano fulmineamente quei dettagli, fino a una perdita di sensi – da sindrome di Stendhal – della descrittrice.
Dopo questo prologo, ecco il lungo corpo drammatico centrale, con due coppie diversamente reagenti alla situazione, e un vedovo che rivede nel personaggio ora agito interpersonalmente dalla Gedeck la propria compagna morta (Tanja), non senza l’apparizione fantasmatica in scena delle figure del quadro, fino all’epilogo tra il metafisico e l’esistenzialista, in cui la neve diventa il clinamen atomistico e materialista del Lucrezio epicureo, e la massa vocale-scenica s’incammina in modo un po’ scontato verso un ulteriore simbolo (un sole dapprima nero, poi splendente). I tre momenti faticano ad integrarsi, nella drammaturgia del testo (firmato da Händl Klaus, sulla base di un originale di Vladimir Sorokin), anche se va dato atto alla regia – di Claus Guth, con i rilevanti apporti di Étienne Pluss per le scenografie e Arian Audiel per i video – di aver dispiegato con pulizia, sagacia e la giusta dose di seduzione visiva gli elementi scenici.
Così, sono emerse in primo piano le doti musicali della partitura di Furrer, insieme unitaria e articolata nell’ora e tre quarti della sua durata. In Violetter Schnee, la proiezione di ampie arcate sonore prende più la strada del materismo orchestrale, con trasformazioni minime e graduali (prevalentemente circolari) nella texture, rispetto alle solidificazioni figurali, che pure non sono assenti e generano rilevanti punti di riferimento. La maestria nella "varietà nell’unità" della scrittura strumentale tiene dunque assieme la partitura, mentre sul piano vocale Furrer riesce a centrare un comportamento assai omogeneo: sin dalla descrizione recitata nel "prologo", le parole pronunciate dalla Gedeck sono separate per gruppi di pochissime unità, non tanto per lavorare sul fonema, ma piuttosto per isolare le più piccole unità semantiche e propiziare – quando poi ciò è applicato ai cantanti – l’uso di frasi melodiche brevi e anti-liriche.
Di ottimo livello la realizzazione musicale, guidata da Matthias Pintscher alla testa del Vocalconsort Berlin e della Staatskapelle Berlin; oltre alla straordinaria Gedeck, bravissimi i cantanti: Anna Prohaska (Silvia), Elsa Dreisig (Natascha), Gyula Orendt (Jan), Georg Nigl (Peter) e Otto Katzameier (Jacques). Pubblico abbastanza numeroso, non tutto ancora presente durante gli applausi finali, che però sono stati convinti. Probabilmente, i due titoli verranno riproposti al festival estivo (Infektion) che la Staatsoper dedica al nuovo teatro musicale: un campo creativo nel quale, a Berlino, s’investe.
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