Muti, parlanti, emozionanti
Hugo Cabret e The Artist film da Oscar
Recensione
oltre
Due film recenti celebrano la gloria e i fasti del cinema muto, estinto di colpo nel 1929 dopo oltre trent’anni di onorata carriera per l’inesorabile avvento del sonoro. Lo celebrano entrambi con emozione e nostalgia, e con l’implicito auspicio che quell’arte antica possa ancora arrivare a noi. Le impressioni però che ne abbiamo all’uscita dalla sala sono molto diverse. Da una parte Hugo Cabret ci trasporta in un universo magico, in un mondo totalmente ricreato dalla straordinaria abilità scenografica di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Scorsese racconta una favola (lui che finora era stato molto lontano dal cinema per famiglie), e lo fa ricordando a tutti che la magia del cinema non è finita, anche di fronte all’avanzata di nuovi modi per vivere sogni e avventure davanti a uno schermo.
The Artist racconta invece un fallimento, e lo fa con toni sicuramente iperreali: tutto è carico di intenzione, dalla recitazione degli attori (che non ha nulla a che vedere con l’enfasi del gesto muto ma ammicca semmai alla complicità televisiva) allo splendore di un bianco e nero troppo luminoso per suscitare il fascino delle pellicole degli anni ’20. Naturalmente The Artist ha stravinto nella corsa agli Oscar; non inganni il 5 a 5 finale; gli Oscar che pesano (miglior film, regia, protagonista, costumi, colonna sonora) vanno tutti al film di Michel Hazanavicious. Hugo Cabret si deve accontentare dei premi che riconoscono la sua straordinaria realizzazione in termini tecnologici (effetti speciali, montaggio, effetti sonori, fotografia). Ma come dicevo quello che rimane del film francese è un’immagine irrimediabilmente consumata (e del tutto comprensibilmente, stando a quel che il film mostra) del passato del cinema; le gags iniziali fanno sorridere per il ritmo e la verve con cui sono congegnate, il protagonista affascina per maramalderia ma non coinvolge empaticamente, tutto appare come una ricostruzione abile ma fredda.
Scorsese riesce a tenerci col fiato sospeso non solo per le vicende del piccolo Hugo, ma anche per la riscoperta delle macchine create dal genio di Méliès, dimenticato dal pubblico ma sempre lì a ricordarci che il cinema (e la vita) sono il frutto dell’invenzione e della magia. D’accordo, la giuria degli Oscar è composta in gran parte da americani maschi bianchi ultra sessantacinquenni, ma come si fa a premiare le musiche super patinate, ovvie, concepite come numeri chiusi alla maniera dell’opera di tradizione di The Artist? E dove ogni passaggio rievoca pagine ben più ardite dei classici di Hollywood, da Max Steiner a Korngold, fino al arrivare alla citazione testuale che, nel momento più drammatico del film, riprende Vertigo di Hermann? Per le immagini di Méliès rievocate da Scorsese fra mille colori psichedelici (presenti anche negli originali) Howard Shore (quello del Signore degli Anelli, ma anche di tutto Cronenberg eccetto La zona morta musicato da Kamen e la presenza di Ornette Coleman in The Naked Lunch) non esita a utilizzare gli strumenti più moderni dell’armamentario del compositore per il cinema, modulazioni, intricati contrappunti, scatti e impennate di ritmo, colori orchestrali dove l’acustico e l’elettronico insieme inventano un nuovo mondo sonoro, con un gesto autoriale di spiccata evidenza rispetto alla pur qualificatissima ma anonima professionalità di Ludovic Bource. Insomma da una parte il lucido sguardo su un’arte irrimediabilmente finita, dall’altra l’ipotesi che l’uomo non corre poi così veloce come le conquiste della tecnica, e anzi queste possono essere chiamate a farci rivivere le emozioni che i nostri bisnonni hanno vissuto cent’anni fa. D’ora in poi, quando vedremo al cinema Méliès, anche nelle copie più scalcinate in bianco e nero, i nostri occhi vedranno mille colori e quell’universo fantastico avrà la consistenza dei sogni che gli ologrammi del sontuoso 3D di Scorsese hanno saputo restituirci.
The Artist racconta invece un fallimento, e lo fa con toni sicuramente iperreali: tutto è carico di intenzione, dalla recitazione degli attori (che non ha nulla a che vedere con l’enfasi del gesto muto ma ammicca semmai alla complicità televisiva) allo splendore di un bianco e nero troppo luminoso per suscitare il fascino delle pellicole degli anni ’20. Naturalmente The Artist ha stravinto nella corsa agli Oscar; non inganni il 5 a 5 finale; gli Oscar che pesano (miglior film, regia, protagonista, costumi, colonna sonora) vanno tutti al film di Michel Hazanavicious. Hugo Cabret si deve accontentare dei premi che riconoscono la sua straordinaria realizzazione in termini tecnologici (effetti speciali, montaggio, effetti sonori, fotografia). Ma come dicevo quello che rimane del film francese è un’immagine irrimediabilmente consumata (e del tutto comprensibilmente, stando a quel che il film mostra) del passato del cinema; le gags iniziali fanno sorridere per il ritmo e la verve con cui sono congegnate, il protagonista affascina per maramalderia ma non coinvolge empaticamente, tutto appare come una ricostruzione abile ma fredda.
Scorsese riesce a tenerci col fiato sospeso non solo per le vicende del piccolo Hugo, ma anche per la riscoperta delle macchine create dal genio di Méliès, dimenticato dal pubblico ma sempre lì a ricordarci che il cinema (e la vita) sono il frutto dell’invenzione e della magia. D’accordo, la giuria degli Oscar è composta in gran parte da americani maschi bianchi ultra sessantacinquenni, ma come si fa a premiare le musiche super patinate, ovvie, concepite come numeri chiusi alla maniera dell’opera di tradizione di The Artist? E dove ogni passaggio rievoca pagine ben più ardite dei classici di Hollywood, da Max Steiner a Korngold, fino al arrivare alla citazione testuale che, nel momento più drammatico del film, riprende Vertigo di Hermann? Per le immagini di Méliès rievocate da Scorsese fra mille colori psichedelici (presenti anche negli originali) Howard Shore (quello del Signore degli Anelli, ma anche di tutto Cronenberg eccetto La zona morta musicato da Kamen e la presenza di Ornette Coleman in The Naked Lunch) non esita a utilizzare gli strumenti più moderni dell’armamentario del compositore per il cinema, modulazioni, intricati contrappunti, scatti e impennate di ritmo, colori orchestrali dove l’acustico e l’elettronico insieme inventano un nuovo mondo sonoro, con un gesto autoriale di spiccata evidenza rispetto alla pur qualificatissima ma anonima professionalità di Ludovic Bource. Insomma da una parte il lucido sguardo su un’arte irrimediabilmente finita, dall’altra l’ipotesi che l’uomo non corre poi così veloce come le conquiste della tecnica, e anzi queste possono essere chiamate a farci rivivere le emozioni che i nostri bisnonni hanno vissuto cent’anni fa. D’ora in poi, quando vedremo al cinema Méliès, anche nelle copie più scalcinate in bianco e nero, i nostri occhi vedranno mille colori e quell’universo fantastico avrà la consistenza dei sogni che gli ologrammi del sontuoso 3D di Scorsese hanno saputo restituirci.
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