Mulatu meno mito?

Una notte a Novara Jazz con Astatke

Recensione
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A Novara Jazz si sente il sapore di un festival. La città ha le dimensioni e il benessere giusto per trasformare in godimento diffuso una notte di calda primavera, tra main stage in piazza, clubbing, jam session, pullulando nel tessuto delle vie. Prima del concerto, puoi conversare a cena con Mulatu Astatke, pacioso e astuto guru dell’ethiopic jazz, sopravvissuto in patria auge a due secoli e a tre regimi certo non liberali e democratici, e ora compiaciuto e cortesemente riconoscente per la sua fama mondiale di sacerdote di ipnotici suoni esotici di trance per sofisticate visioni cinematografiche post-modern (“Broken Flowers” di Jarmush con Bill Murray per tutti). Gli chiedo “cosa suonerà stasera?” Ethiopic jazz. “Sì, ovvio, ma cosa, in particolare del suo ethiopic jazz?” Jazz. Mulatu è tra le nuvole, a tavola con i ragazzi della sua band, certo energici ma lontani dalle sprofondate mitologiche registrazioni Buda da ere di favolosa diversità di mondi e di suoni.
Mulatu dal vivo è soffice e sacerdotale sul vibrafono, goffo e quasi imbarazzante alle percussioni, perché delude? Che ci ha fatto? Cosa ha tradito della nostra devozione mitologica? Forse delude la souplesse del ben confezionato programma, quel pezzo alla Chet Baker o quell’altro da club occidentale anni Ottanta un po’ mainstream... Certo che quando parte con “Broken Flowers” andiamo in giuggiole commosse, debilitato ciascuno dal suo macello amoroso in corso, in empatico solidale mood. Ma nell’era del tramonto del disco, e della sorte live di tutta la grande musica, fa strano rimpiangere di non essere rimasti ciechi, aggrappati al feticcio sonoro di un vecchio disco fumoso, sognando di incontrare un giorno il guru dell’ethiopic jazz.


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