Martina Franca è pop

Le novità al Festival della Valle d'Itria

Recensione
classica
In una regione, la Puglia, che nella campagna estiva di turismo culturale punta tutto sulla Notte della Taranta (con un numero di presenze a Melpignano che ogni anno incoraggia l’enorme contributo pubblico a suo sostegno), Alberto Triola si è posto una sfida non da poco per il Valle d’Itria di Martina Franca: farlo uscire dai limiti di una programmazione che ne ha fatto negli anni un giardino per iniziati, e trasformarlo in appuntamento di richiamo pop. Un paradosso? Un’eresia? Nient’affatto. Gli appassionati del repertorio antico gli avranno pure rimproverato l’operazione di rilettura e riscrittura dell’Orfeo di Luigi Rossi affidata alla compositrice toscana Daniela Terranova: perché accontentarsi di poche citazioni quando la musica di Rossi scritta per il teatro del Palais Royal nel 1647 è così bella da far desiderare un ascolto integrale? Ma, ha pensato Triola, quant’è cambiato il pubblico da allora? Un’operazione filologica di tale rigore lo gratificherebbe o piuttosto l’indisporrebbe? Analogamente è andata per la prima commissione d’opera in 38 anni di Valle d’Itria. Nûr, storia di rinascita spirituale di una donna nel buio del terremoto dell’Aquila, ha mostrato di possedere un libretto tanto complicato e visionario (di Vincenzo De Vivo) quanto invece lirico e tradizionale è il linguaggio musicale (di Marco Taralli). Un modo per dire, senza mezzi termini, che le paure sulla musica contemporanea sono infondate? Probabilmente. Non a caso i concerti del Novecento dedicavano ampio spazio a un compositore trasversale per pubblico e gusti qual è Arvo Pärt (il suo Stabat Mater è stato eseguito in uno dei templi eccellenti del canto gregoriano, l’abbazia della Madonna della Scala a Noci). Questa scelta ha anche inteso suggellare una collaborazione col festival internazionale di musica da camera di Tallin dal quale sono arrivati molti interpreti anche vocali; estone è pure la compositrice Helena Tulve a cui il Valle d’Itria ha commissionato un’opera per il 2014. Nella direzione di questa visione pop del festival è andata anche l’individuazione della cifra registica della Zaira di Bellini nella quale la regista Rosetta Cucchi ha scelto di narrare la storia su due piani: uno storico e un altro attuale. Con qualche forzatura di troppo, la regia ha trasformato Zaira in una giornalista occidentale rapita dai fedeli di Al Qaeda. Presentata come un’operazione di attualizzazione dell’opera, è valsa i fischi alla regista. Sono già passate alcune settimane dalla chiusura del festival che ha sancito il primo triennio Triola, e ponendo l’ennesima domanda, si chiede se queste scelte “compromissorie” hanno in qualche misura offuscato l’identità e la qualità della rassegna. La risposta è no, ed ecco la ragioni. Martina non ha infatti rinunciato a coltivare i temi portanti cari alla programmazione: l’operazione sul Settecento (Artaserse di Hasse) con tanto di falsetto (di cui avremmo fatto volentieri a meno), il belcanto con il titolo desueto belliniano, e la musica contemporanea sinfonica con la prima italiana di Graal théâtre (1994), il concerto per violino e orchestra di Kaija Saariaho magnificamente eseguito da Francesco D’Orazio, nonostante le terribili difficoltà tecniche della partitura. In compenso l’edizione 2012 ha fatto registrare un incredibile aumento delle presenze nel pubblico e una inedita partecipazione della città, finalmente consapevole che il festival può e deve essere un momento di grande slancio anche economico.

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