A Madrid l'Orchestra RTVE è tornata casa

Concerto al Teatro Monumental diretto da Federico Jusid

L’Orchestra della Radio Televisione Spagnola
L’Orchestra della Radio Televisione Spagnola
Recensione
classica
Teatro Monumental, Madrid
L’Orchestra della Radio Televisione Spagnola
24 Gennaio 2019 - 25 Gennaio 2019

Dopo una stagione in sedi decentrate, i concerti della RTVE, l’Orchestra della Radio Televisione Spagnola,  sono ritornati da gennaio alla loro storica sede nel Teatro Monumental di Madrid, rimasto chiuso per lavori di manutenzione. Idealmente dedicato a Leonard Bernstein, di cui l’anno scorso cadeva il centenario della nascita, il programma presentato il 24 e 25 ha affiancato alla sua Prima Sinfonia «Jeremiah», l’esecuzione di The Unanswered Question di Charles Ives, compositore che Bernstein fu tra i primi a rivelare, e due opere del compositore argentino, ora residente a Madrid e Los Angeles, Federico Jusid, prolifico autore di colonne sonore e impegnato anche in qualità di direttore del concerto. 

Prima di iniziare, rivolgendosi direttamente al pubblico, Jusid ha voluto sottolineare la novità del brano di Ives, la cui prima stesura è del 1908, e il suo carattere pionieristico dovuto alle sovrapposizioni di musiche eterogenee provenienti da due piani sonori diversi e non sovrapponibili. È proprio questa natura sperimentale a colpire nella musica di Ives, cioè la volontà di creare con i suoni un tipo di forma che non è strettamente musicale, ma spaziale. In particolare, nella Unanswered Question, una volta capito il gioco, non c’è poi molto da scavare: le contraddittorie risposte dei legni alla reiterata “domanda” esistenziale della tromba, risposte che si intromettono come interferenze radiofoniche nel contemplativo tappeto sonoro degli archi, fanno trasparire troppo chiaramente il disegno programmatico da cui scaturisce la forma. Il brano, seppure un po’ naïf, ha comunque una sua poesia, che chissà sarebbe ancora maggiore se nessuna delle frasi della tromba avesse risposta.

Un discorso simile vale anche per il primo pezzo di Jusid in programma, la sua Tango Rhapsody per due pianoforti e orchestra, che tra effetti strumentali, temi languidi e temi ritmati in 3+3+2, mette in scena un episodio di seduzione, litigio e riconciliazione, con gli interpreti che non devono solo fare da pianisti, ma anche da attori, mimando alcune scenette. Originariamente scritta per il duo misto Lechner-Tiempo, femmina e maschio, il canovaccio è stato un po’ riadattato per l’esecuzione qui a Madrid da parte dei due fratelli Luis e Víctor del Valle, che invece fare scintille seducendosi a vicenda, rivaleggiavano fraternamente, uno nella parte di un Florestano impetuoso, l’altro come un Eusebio sognatore. Il problema di fondo della partitura però rimane lo stesso, ed è che il senso formale è delegato a fattori esterni alla musica, che si intromettono inoltre in modo esplicito. Cosa non vietata, se solo la frizione fra i due livelli (quello musicale e quello gestuale) fosse provocatoria o critica, esplorando i limiti del linguaggio, come ad esempio nella Sequenza per trombone di Berio; ma qui la musica e la performance fanno un tutt’uno ridondante, così che la partitura, oltre che piuttosto lunghetta, pur con alcune simpatiche trovate, non si allontana di molto da una colonna sonora da cartone animato. Brillante l’esecuzione da parte dei due pianisti che hanno poi salutato il pubblico con un’esecuzione fuori programma delle Variazioni su un tema di Paganini di Lutosławski, cui però non sarebbero guastate più sfumature e meno impeto.

La seconda parte del concerto si è aperta con un’altra opera di Jusid, Kinetic Ouverture, un brano in tre parti che si dava in prima esecuzione, ricco di trovate orchestrali (molto riuscito l’ansimante inizio dell’orchestra che pare risvegliarsi) e di richiami a La mer  di Debussy o al Sacre di Stravinsky. Manca anche qui purtroppo un collante che dia senso al progetto musicale dall’interno, un requisito che il compositore per film può ignorare, perché lì è il montaggio delle immagini a fare la forma, ma di cui non si può fare a meno in una sala da concerto, pena una sensazione di gratuità che grava sulla musica. 

Così saturati da tante note, non si era forse nella migliore disposizione per ascoltare la Sinfonia «Jeremiah». Bernstein, pur consapevole della crisi della forma sinfonica, inseguì per tutta la vita il sogno di imbroccarne una, e consapevole che non si fa un sinfonia parlando in nome proprio, ma rappresentando valori condivisi da una comunità, a nome di tutti, di una nazione, ecc., cercò nella tradizione ebraica delle possibili radici. Purtroppo il risultato non convince del tutto, molti momenti rasentano l’enfasi ed è difficile abbracciare i vari episodi sotto un unico arco. Ciononostante, quando nell’ultimo movimento il mezzo-soprano islandese Guðrún Ólafsdóttir ha intonato con voce perfettamente a fuoco e con espressività concentrata le lamentazioni del profeta, un momento di raccoglimento si è fatto strada tra tanta esteriorità, ed è risultato chiaro che il vero baricentro della sinfonia è in questo finale. Il quale riscattando la sinfonia ha anche concluso l’interessante serata lasciandoci più riconciliati con la musica e con noi stessi.

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