Le finestre della Biennale

Bilancio del Festival

Recensione
classica
Una Biennale che si è affacciata a quelle finestre sul mondo cui ha fatto espresso riferimento il Leone d’Oro Steve Reich (nell’incontro con il pubblico di cui vi ho già raccontato) quella che si è appena conclusa. Finestre che si affacciano su cortili e strade che non pretendono certo di portare le voci di tutto il mondo, ma che offrono comunque spunti stimolanti per un festival che dalla condivisione con altre comunità può trarre significati e forza che vadano al di là del semplice "valore" dei lavori presentati.

Nel primo scorcio di Festival colpisce molto (tra le cose che ho potuto seguire) il lavoro fatto da Roberto Doati e Tolga Tüzun con i ragazzi della Galata Electroacoustic Orchestra. Nel bellissimo spazio costruito alle Corderie dell’Arsenale (con i musicisti al centro e il pubblico disposto su due tribune lignee ai lati) giovani musicisti turchi, spagnoli e italiani si misurano con l’improvvisazione e con materiali di chiara matrice etnica. Laptop che illuminano i visi accanto a baglama o flauti ney, a un sassofono o un arpa, due direttori che danno le spalle e che governano piccoli gruppi di strumenti mentre altri sono liberi di intervenire senza vincoli. C’è un’energia contagiosa nell’esito di questo progetto, un qualcosa che se non possiamo ascrivere al campo della novità (in ambiti più legati all’elettronica e all’improvvisazione sono frequenti esiti di questo tipo), possiamo però senza dubbio raccontare con una certa emozione e capacità di interagire in modo sempre sensato con i differenti materiali a disposizione. A questo contribuisce certamente la mano dei due conductors e la capacità di contenere la musica all’interno di una dimensione temporale e architettonica ben controllata, sempre essenziale e mai ridondante. Il pubblico sente tutto questo e ricambia i volti sorridenti dei ragazzi con un empatia che va al di là dei tanti applausi. Non altrettanto entusiasmo nel concerto di apertura del weekend al teatro Malibran, con l’Orchestra della Fenice diretta da Pascal Rophé. Non tanto per la prova dell’Orchestra, buona nonostante lo scarso "feeling" generale con il repertorio contemporaneo, quanto per il programma, con due "soli" per orchestra di Dusapin piuttosto monocordi, un Graal théâtre per violino e orchestra di Kaija Saariaho che non è certo tra le sue cose più riuscite (e nonostante un ottimo Francesco d’Orazio nella parte solista) e una Doctor Atomic Symphony non memorabile. Sotto il profilo orchestrale piacciono i baschi l’Orquesta Sìnfonica de Eusakdi, che hanno proposto due concerti. Io ho potuto assistere solo al primo (il secondo presentava le tessere sonore del mosaico identitario Tesela): bravi loro – sotto la direzione di José Ramón Encinar – e ben costruiti i pezzi di Ramón Lazkano e Gabriel Erkoreka, abbinati alla notevole Frondoso Misterio per violoncello e orchestra del più celebre Luis de Pablo.

Spazio anche a solisti e duetti all’insegna dell’altissimo livello esecutivo. Splendidi il flautista Matteo Cesari e il contrabbassista Dario Calderone: nel loro recital colpisce in primis il pezzo commissionato al golden boy della contemporanea di oggi (senza se e senza ma), Yannis Kyriakides. Testudo per contrabbasso e elettronica è un altro dei geniali congegni compositivi cui l’artista cipriota ci ha abituato in questi anni, grazie a una immediatezza chiaramente percepibile e a una splendida fusione tra gli elementi acustici e quelli generati dai risuonatori e elaborati elettronicamente. Interessanti anche i lavori di Silvia Borzelli per duo e di Oscar Bianchi ancora per contrabbasso. Il pubblico applaude convinto. Molto bene anche Francesco Prode (pianoforte) e Dario Savron (percussioni): loro sono bravissimi e anche il programma piace, a partire da un pezzo scritto con grande ispirazione come Tombeau in Memoriam Gérard Grisey di Philippe Hurel per giungere a Aperghis, passando per una versione appassionata e "romantica" (per quanto possa essere con Luigi Nono) di …sofferte onde serene…. La Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian funziona bene nel dare la giusta "distanza" tra pubblico e esecutori, fatta di intimità e di condivisione, buona anche per i ragazzi delle scuole portati dal servizio educational, un po’ ghignanti e distratti in qualche frangente, ma comunque mediamente rispettosi e parte di una dinamica costruttiva.

Un po’ deludente la serata alle Tese dedicata all’Ensemble Intercontemporain. Colpisce come in un programma di musica nuova, una volta di più, sia un lavoro consolidato del Novecento (qui il Concerto da camera di György Ligeti) a fare la parte del leone. Chiusa in se stessa, noiosa e prevedibile è la composizione commissionata appositamente presentata in apertura, Iridescent Stasis di Amir Shpilman. Un po’ meglio il teatrale duetto violoncello/contrabbasso allestito da Ondrej Adámek e la colorata fantasia Rythmes et échos des rivages anticostiens dell’allievo di Ligeti Denys Bouliane, mentre Dai Fujikura disloca gli strumentisti in giro per la sala ma l’esito è piuttosto convenzionale. Ecco quindi che il Concerto da camera di Ligeti – un "cavallo di battaglia" dell’Ensemble che ne incise una memorabile versione diretto da Boulez – viene quasi a rasserenare la serata, sebbene l’Ensemble, ovviamente ottimo, non sembra più brillare di quella urgenza esecutiva cui ci aveva abituati.

Indicazioni? Tenere le finestre aperte garantisce cambi d’aria e la familiarità con voci che magari non si conoscono intimamente. Buona idea quindi iniziare a mettere il naso dentro geografie e pratiche differenti da quelle abituali (alcune delle quali, alla luce del sole che entra dalla finestra appaiono anche un po’ consunte). Al direttore del Festival Ivan Fedele, che ha ancora un anno di incarico davanti a sé, l’opportunità di aprire altri sguardi e ascolti che dialoghino con il mondo. Ne dovrebbe valere la pena.

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