La prima volta di Mariotti come direttore musicale a Roma

Luisa Miller con un ottimo cast e l’allestimento di Michieletto proveniente da Zurigo

"Luisa Miller" (foto Fabrizio Sansoni - Teatro dell’Opera di Roma)
"Luisa Miller" (foto Fabrizio Sansoni - Teatro dell’Opera di Roma)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Luisa Miller
08 Febbraio 2022 - 17 Febbraio 2022

Con questa Luisa Miller Michele Mariotti è salito per la prima volta sul podio del Teatro dell’Opera come nuovo direttore musicale: poiché il mandato del suo predecessore Daniele Gatti si era concluso lo scorso dicembre, il sovrintendente Francesco Giambrone gli ha infatti chiesto di anticipare l’inizio del suo incarico, originariamente previsto per il prossimo autunno.

Diciamo subito che questa sua funzione di grande responsabilità è cominciata sotto i migliori auspici, innanzitutto perché il coro e l’orchestra hanno fornito un’ottima prestazione, e questo significa che tra il direttore e i complessi del teatro romano si è immediatamente stabilita una buona intesa. Ma anche perché Mariotti stesso era in gran forma, elegante, accurato e concentrato come sempre, ma anche espressivo, comunicativo ed entusiasta come non sempre era stato nei precedenti Verdi in cui ci è capitato di ascoltarlo. E il compito del direttore non è affatto facile in quest’opera, molto ostica per le sue disuguaglianze e complessa per la sua drammaturgia musicale, in cui momenti tradizionali sono mescolati ad altri nuovi, che talvolta anticipano il Verdi futuro ma talvolta restano degli unici che non si ritroveranno in seguito. Mariotti è riuscito a dare coerenza a questi disparati momenti, ottenendo un’interrotta tensione e raggiungendo anche una grande emozione e direi anche una grande commozione nel terzo atto, uno dei più belli scritti da Verdi fino ad allora e raramente superato anche in seguito. Tutto questo l’ha fatto senza spingere sull’acceleratore e alzare il volume, che sarebbe il metodo più facile per ottenere una generica tinta verdiana. Al contrario ha valorizzato le sfumature e i particolari, come – per fare un solo esempio - i colori delicatissimi e originali chiesti da Verdi agli strumenti a fiato nel primo quadro dell’opera per dare la sensazione dell’alba primaverile.

"Luisa Miller" (foto Fabrizio Sansoni - Teatro dell’Opera di Roma)
"Luisa Miller" (foto Fabrizio Sansoni - Teatro dell’Opera di Roma)

Sulla stessa lunghezza d’onda erano i cantanti. Roberta Mantegna era Luisa, per cui Verdi ha scritto una parte ancora ricca di fioriture, che però non è più un soprano leggero né un drammatico d’agilità ma un personaggio lirico, sentimentale, romantico. Il soprano palermitano ha affrontato le colorature con leggerezza ma senza leziosaggini e con carattere ma senza forzature, esprimendo tutta la parabola di sentimenti di Luisa, dalla gioia iniziale di una giovane che sboccia alla vita e all’amore fino alla tragedia finale della morte sua e del suo amato. Insomma è stata perfetta o almeno molto vicina alla perfezione.

Rodolfo era Antonio Poli, che passo dopo passo è diventato un ottimo tenore verdiano. A voler essere proprio incontentabili, gli si potrebbero imputare alcune forzature in “Quando le sere al placido”, ma è stato impeccabile in tutto il resto dell’opera, in particolare nel tragico e commovente duetto nell’ultimo atto con Luisa, che si trasforma in terzetto con l’arrivo di Miller padre, interpretato da Amartuvshin Enkhbat, la cui voce piena, timbrata e omogenea in tutti i registri ne fa uno dei migliori baritoni verdiani di oggi. Ma tutto il cast era di alto livello, con Michele Pertusi quale Conte di Walter elegantemente malvagio, Marco Spotti come luciferino Wurm e Daniela Barcellona come Federica di lusso. La giovane Irene Savignano ha dato un bel rilievo al piccolo ruolo di Laura.

L’allestimento firmato da Damiano Michieletto – con il suo ben collaudato team costituito da Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi e Alessandro Carletti per le luci – è stato realizzato per Zurigo nel 2010 ed è lineare e semplice se paragonato ad altri spettacoli del regista veneziano. Il palcoscenico è interamente chiuso da alte pareti, che nella parte superiore rappresentano il palazzo del conte, con stucchi di un bianco sfavillante, lampade dorate e sedie ricoperte di velluto, e in quella inferiore la casa di Miller, grigia, con povere seggiole di legno e debolmente illuminata. Le due case sono simultaneamente presenti anche grazie ad una pedana girevole, ai quattro lati della quale stanno due letti e due tavoli, sontuosi quelli del conte, dimessi quelli di Miller, cosicché basta far ruotare la pedana per spostarsi da un luogo all’altro, evitando i numerosi cambi di scena che interromperebbero l’azione.  La recitazione è naturale e semplice, perché la semplicità è il tratto distintivo di quest’opera. Solo il perfido Wurm (cioè Verme, proprio così l’ha chiamato Schiller) è sottolineato da atteggiamenti contorti e innaturali del corpo e del capo.

"Luisa Miller" (foto Fabrizio Sansoni - Teatro dell’Opera di Roma)
"Luisa Miller" (foto Fabrizio Sansoni - Teatro dell’Opera di Roma)

Ma allora – potrebbe dire qualcuno - siamo proprio sicuri che il regista sia Michieletto? Rassicuratevi, è proprio lui ed ecco la prova: sono quasi perennemente in scena due bambini, che rappresentano il lato infantile di Luisa e Rodolfo, talvolta portando un’aura poetica ma talvolta risultando superflui e anche fastidiosi, per esempio quando al momento della catastrofe finale si mettono a giocare a cuscinate: perché mai rovinare così un momento tanto tragico?

Teatro finalmente pieno e buon successo, ma gli interpreti avrebbero meritato accoglienze anche più calorose.

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