La prima italiana di The Tender Land a Torino
L’opera di Aaron Copland debutta al Piccolo Regio
È l’America di Ford e Steinbeck, di Tobacco Road e Furore, quella messa in musica da Aaron Copland nel 1954 per la sua seconda opera di teatro musicale, The Tender Land, che il 7 aprile 2024 ha avuto il suo debutto italiano al Teatro Regio di Torino – e per questo al Regio andrebbero recapitati allori. Copland è il «sommo sacerdote della musica americana» (copyright Leonard Bernstein), il musicista che di quella cultura espresse in forma più compiuta l’ethos e i miti fondativi: una tappa fondamentale, dunque, per chi la ama. In quest’opera, sottilmente sospesa tra l’idillio e il dramma ibseniano, su una campagna accogliente e tender negli anni Trenta si allungano le ombre della Depressione, della diffidenza verso l’Estraneo, del valore della terra (Rossella O’Hara, Fleming) sopra quello del desiderio d’indipendenza (Dorothy, sempre Fleming). Sul palco del Piccolo Regio, con una scenografia asciutta e lignea come le case del Midwest, il regista Paolo Vettori colloca i conflitti all’ombra d’un grande albero rosso, simbolo genealogico dei Moss. Su di esso sono appesi i ritratti degli antenati, che prendono vita (ballando la danza delle forchette di Chaplin) e indicano la via delle radici al nonno (Tyler Zimmerman), alla mamma (Ksenia Chubunova) e alla sorella (Layla Nejmi / Minerva Bonizio) di Laurie Moss (Irina Bogdanova), l’unica del quartetto familiare che non seguirà quella via, ma sceglierà la libertà individuale, attirata dalla vita di due vagabondi, Top (Andres Cascante) e Martin (Michael Butler), e di quest’ultimo innamorata. Ai due innamorati e alle loro belle voci – anche se talvolta leggermente dure e difettose nell’intonazione – sono affidati gli slanci più lirici di una scrittura musicale che, britteniana com’è per ammessa ispirazione di Copland, richiede qui una cantabilità spiegata, lì una capacità di essere cellula musicale parlante in un contesto sinfonico pieno di richiami ritmici più che tematici. Il fatto di aver proposto l’opera con organico da camera, in una versione del 1987 di Murry Sidlin autorizzata dal compositore, rende questa integrazione assai più scoperta, e talvolta non del tutto riuscita, con squilibri di volume tra le voci e l’orchestra (o nell’orchestra stessa, diretta da Alessandro Palumbo) piuttosto evidenti. Un po’ si rimpiange il non avere ascoltato la versione originale per orchestra sinfonica, dove fra le molte cose c’è un magnifico uso delle percussioni. Ma lo sforzo di tutti e l’operazione culturale in sé merita l’applauso tributato.
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