La follia di un'Alcina elettronica e romagnola

"L'Isola di Alcina", Concerto per corno e voce romagnola di Luigi Ceccarelli, ha colto un ottimo successo al Teatro Valle di Roma, avvincendo per la sua rilettura della figura di Alcina: una straordinaria Ermanna Montanari ha impersonato la maga ariostesca che, nel testo di Nevi Spadoni, esprime in dialetto romagnolo il suo furibondo scivolare verso la follia.

Recensione
classica
Teatro Valle Roma
Luigi Ceccarelli
01 Marzo 2002
"L'isola di Alcina", prima tappa di un Cantiere Orlando progettato dal Teatro delle Albe di Ravenna come attraversamento/riscrittura teatrale della tradizione epica cavalleresca italiana, è approdato due anni dopo il debutto veneziano della Biennale alla vetrina romana dell'Eti (Teatro Valle). Si tratta di una partitura elettroacustica di Luigi Ceccarelli, compositore riminese formatosi negli anni '70 con una specifica vocazione elettronica, e sin da allora incline a percorrere tragitti inventivi in cui il suono deborda e si confronta con piani espressivi altri. Il farsi teatro di questo "Concerto per corno e voce romagnola" era implicito nel progetto drammaturgico di Marco Martinelli (anche regista) ed Ermanna Montanari (anche performer vocale principale): l'ariostesca maga Alcina, con la sua sorella Principessa, diventa una popolana romagnola, ma in un senso atemporale e mitico che la avvicina alla Circe omerica; infatti le due sorelle, abbandonate da un padre appassionato lettore dell'Orlando Furioso, ne hanno ereditato un canile, popolato di uomini-cani bestialmente latranti, nel quale Alcina non riuscirà a richiudere un forestiero bellissimo: dopo averlo soffiato alla sorella, ormai inebetita dalla pazzia, ne verrà abbandonata, andando incontro ad una progressiva e furibondo istupidimento. Questa follia, mentre nella invidiata sorella Principessa si esprime in una vocalità catatonica (risa, un'allucinata melodia verdiana...), in Alcina prende la strada ultra-espressiva del dialetto romagnolo grazie al bel testo di Nevio Spadoni, che riesce tuttavia a far apparire la matericità del dialetto come un'opzione estrema (viscerale, folenghiana) della lingua di Ariosto qua e là citato. In questa lingua della corporeità (e forse dello scongiuro, della diversità del magico) Alcina, condannata a non morire come le fate e a patire dunque la permanenza del corpo, tiene una scena fatta di invettive, di lamenti e sogni schiantati, con un'azione ridotta all'osso simbolico. La partitura di Ceccarelli ricomprende il testo e le voci in una tessitura di gesti, assai incisivi quanto ben scanditi, che originano dal trattamento elettronico di suoni di corno (prodotti da Luigi Fait) e di respiri: la forte rugosità della materia sonora, la sua instabilità materica (del corno sono esaltati i richi transitori d'attacco), riescono a entrare in dialettica con la pietrificazione della scena, con la quale intrattengono un interessante duplice rapporto (già altrove notato in Ceccarelli) di prolungamento iper-espressivo e di confronto ironico. Nonostante l'osticità del dialetto, un pubblico spiazzato all'inizio ma entusiasta alla fine ha dimostrato di cogliere il progetto drammaturgico ed espressivo dell'operazione, grazie anche alla straordinaria prova della Montanari (Premio Ubu 2000 per questa performance).

Note: produzione La Biennale di Venezia, Ravenna Festival, Ravenna Teatro

Interpreti: Interpreti dal vivo: Ermanna Montanari (Alcina), Giusy Zanini (principessa), Francesco Antonelli, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Andrea Mordenti, Alessandro Renda (cani) Interprete su nastro: Luigi Fait (corno)

Regia: Marco Martinelli

Scene: Ermanna Montanari, Cosetta Gardini

Costumi: Ermanna Montanari, Cosetta Gardini

Direttore: Luigi Ceccarelli

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