La Babilonia del ventunesimo secolo

Il pubblico reagisce inferocito alla regia di Dieter Kaegi, che trasporta la Babilonia nel ventunesiòo secolo, ma è uno spettacolo perfettamente realizzato, stimolante e teatrale.

Recensione
classica
Rossini Opera Festival Pesaro
Gioachino Rossini
20 Agosto 2003
Cominciamo dall'inizio, saltando però l'ouverture, che serve solo a far capire che Carlo Rizzi ha optato per tempi lentissimi e che l'Orquesta Sinfonica de Galicia (ah, le tanto decantate orchestre straniere!) è piuttosto grossolana. Lo spettacolo entra nel vivo quando si alza il sipario (metaforicamente, perché al Palafestival il sipario non c'è) e il regista Dieter Kaegi prende in mano la situazione. Il "magnifico tempio di Belo, festivamente ornato" è uno spazio moderno e ipertecnologico, occupato quasi interamente da un grande tavolo rotondo, intorno a cui prendono posto i "magi", che hanno lunghi capelli argentei e indossano giacche e pantaloni altrettanto argentei. Una setta segreta? Un consiglio d'amministrazione? Una riunione di governo? Quel che è certo è che il loro potere si estende al mondo intero, come stanno a dimostrare le lucette che lampeggiano sulle carte geografiche riprodotte nei grandi schermi luminosi che campeggiano sullo sfondo. Entrano poi degli orientali nei loro abiti tradizionali (" di tanti regi e popoli/che miri a te d'intorno") e il tavolo, ornato per l'occasione con le bandiere dei vari paesi, ospita un congresso internazionale, forse una seduta dell'Onu: ma tutti gli stati sono vassalli di Babilonia e infatti recano doni che vengono inghiottiti dal tavolo. Questo tavolo è molto versatile, perché nella scena seguente diventa un tavolo d baccarat, dove questi "satrapi" orientali mettono in gioco le ricchezze dei loro popoli. Poi diventa la palestra (i "giardini pensili di Babilonia") dove le "giovani citariste" si esercitano nella scherma; le osserva Semiramide, che però non ama l'esercizio fisico – infatti non rinuncia mai a toilettes esagerate e non scende mai dai tacchi a spillo – e in palestra ci va solo per farsi fare la manicure, approfittando di questo momento di relax per cantare l'aria più famosa dell'opera, "Bel raggio lusinghier". Per abbreviare, saltiamo direttamente all'ultima metamorfosi del supertavolo, che nella scena finale funge da "sotterraneo del mausoleo di Nino" e partorisce allora una corona di faretti che abbagliano Arsace, che perciò sbaglia e, come da copione, colpisce a morte Semiramide invece di Assur. È tutto molto moderno, razionale, ordinato, confortevole, asettico e questo rende ancora più inquietanti le terribili lotte per il potere che si svolgono in questa Babilonia del ventunesimo secolo. Ogni riferimento a persone e fatti attuali non è casuale, però lasciamo alla nostra gentile vicina di sedia la responsabilità di affermare che tra le comparse siano riconoscibili perfino le signore Reagan, Clinton e Bush. Ma Kaegi allude non solo alla realtà politica degli ultimi anni ma anche alla fantapolitica, perché la scenografia sembra una citazione della sala di comando del Dottor Stranamore e Assur, follemente assetato di potere, è anche lui privo della mano sinistra: quindi se Assur è il Dottor Stranamore e il Dottor Stranamore era Kissinger, allora per la proprietà transitiva Assur è Kissinger? Ma forse non ci si deve scervellare troppo a cercare una spiegazione precisa a tutto, perché Kaegi non punta alla coerenza ma cerca le discontinuità, i dislivelli, le contraddizioni, le sovrapposizioni. Dunque ora anche il Rossini Opera Festival ha avuto finalmente la sua prima regia alla moda tedesca: è un passo che all'alba del ventunesimo secolo era inevitabile compiere, ma il pubblico si è inferocito. Personalmente l'ho trovato uno spettacolo stimolante, perfettamente realizzato e soprattutto teatrale. E perfino più elegante (merito anche di William Orlandi, scenografo e costumista) di tanti spettacoli del Rof a base di velluti e pennacchi, colonne neoclassiche e stucchi dorati. Certamente la musica di Rossini appare un po' spaesata in quest'ambientazione ipermoderna, ma è altrettanto - e più - spaesata nei tempi dilatati imposti da Carlo Rizzi. Il caso limite è la cavatina di Arsace, dove la lentezza estrema spappola la melodia, le ripetizioni di frasi e le simmetrie interne, rendendo inoltre ancora più difficile il compito di Daniela Barcellona, alle prese con uno dei ruoli più lunghi e difficili di tutto il teatro rossiniano. Questo è un ruolo nettamente contraltile e la Barcellona è quanto di più vicino a un contralto esista oggi ma non è un contralto, quindi le note più gravi non hanno l'appoggio ideale e la fatica incide anche sul registro acuto, che non ha la proiezione gloriosa di altre volte. Comunque è un'artista che merita il subisso d'applausi con cui il pubblico l'ha salutata dopo ogni pezzo. Bravissima anche Dorina Takova, ma anche lei lascia trapelare una certa fatica: infatti, ascoltata in una replica, elimina le variazioni nel registro sovracuto di cui aveva abusato alla prima (ed è meglio così, perché Semiramide deve insistere sul registro medio-grave) ma in compenso arricchisce la sua tavolozza espressiva. Ildar Abdrazakov è un Arsace adeguatamente perfido: il suo stile rossiniano è infiltrato da toni verdiani, ma questo si risolve in una splendida scena delle allucinazioni, che così appare più che mai la diretta antecedente della simile scena del Macbeth di Verdi. Glissando sull'imbarazzante Idreno di Gegory Kunde, restano da citare le buone prestazioni di Marco Spotti (Oroe) e Sonia Lee (Azena).

Note: nuova coproduzione con Teatro Regio di Torino, Teatro Real di Madrid, Gran Teatro del Liceu di Barcellona

Interpreti: Takova, Barcellona, Abrazakov, Kunde, Lee, Coliban, Trucco

Regia: Dieter Kaegi

Scene: William Orlandi

Costumi: William Orlandi

Orchestra: Orquesta Sinfonica de Galicia

Direttore: Carlo Rizzi

Coro: Coro da Camera di Praga

Maestro Coro: Lubomir Matl

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