Kammermusik 1958: Henze rilegge Hölderlin
A Montepulciano, applaudita novità di una versione scenica del significativo lavoro
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La proposta della Kammermusik 1958 di Hans Werner Henze, da parte del Cantiere Internazionale di Montepulciano, travalica il legame tra il compositore tedesco (nonché italiano, d’adozione e per sua scelta) e il festival da lui fondato a metà anni Settanta. Il lavoro, un ampio quanto organico polittico intonante l’inno In lieblicher Bläue di Hölderlin, è al centro di vari snodi di estetica e poetica, non solo legati a Henze: tra i tanti, la sintesi di lacerazione romantica e classicità, la significativa dedica a Britten, quindi la conferma di una prassi a tutto campo – sintetica, e allo stesso profondamente mirata e organizzata – entro i linguaggi e i sistemi della modernità musicale, infine un’idea di drammaturgia tutta interna alle configurazioni sonore, ma non dimentica della risorse plastiche che tale soluzione apre, anche quando la chiave è in sostanza lirica. Le tre componenti della tavolozza sonora, tenore, chitarra solista e ottetto strumentale, sono perciò combinate in quattro modalità (con tre pannelli per ciascuna, più l’epilogo), senza che la tensione espressiva del testo cessi di propagare i suoi echi nei pannelli solo strumentali: i noti tre Tientos, capisaldi del repertorio chitarristico, recano un dichiarato riferimento ai versi di Hölderlin, trasmutato carsicamente nel flusso sonoro.
La scelta del Cantiere, che ha dedicato a un altro capolavoro di Henze per le sei corde (la Royal Winter Music) e allo stato del percorso artistico dell’istituzione un’articolata giornata di approfondimenti, è stata di provare la delicata strada della realizzazione scenica. Stefania Bonfadelli ha scelto anzitutto di drammatizzare l’io lirico, ancorandolo alla situazione di lucida follia di Hölderlin. È una lettura problematica, che comunque la regista non calca troppo sopra la dimensione narrativa, per valorizzare invece alcuni elementi mediali in sé e l’assetto epico-speculare della messinscena: il gruppo strumentale è a vista, nella metà destra del palcoscenico, con indosso semplici vestiti bianchi da casa di cura, mentre la parte destra è incorniciata da una struttura telescopica di finestre per le azioni mimiche del ‘doppio’ e di due sue visioni, corrispondenti ai due concetti-chiave che chiudono dialetticamente l’inno; una panca ortogonale, diagonale verso la metà opposta, marca gli spazi dei due solisti (tenore e chitarrista, a loro volta due doppi) e la direzione dell’intervento saltuario del primo nell’azione.
Oltre nella strutturazione dello spazio, realizzata col meritorio concorso di studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, lo spettacolo è sembrato particolarmente efficace negli elementi scenici più astratti, ma simbolicamente connotati, sottolineati proprio nel corso dei tientos chitarristici: l’acqua, il colore rosso sacrificale (Edipo come vittima del fato umano) associato al mondo floreale, gli specchi. Operazione, insomma, interessante e complessivamente riuscita, anche per l’ottima interpretazione del tenore, ingrediente indispensabile ma purtroppo raro per una buona resa di questo brano: Leonardo Cortellazzi si è dimostrato convincente soprattutto sul piano vocale, per precisione d’intonazione, solidità dell’emissione e cura del fraseggio; abbastanza bene il chitarrista Jürgen Ruck. Marc Niemann ha diretto i Dresdner Symphoniker, di fronte a un pubblico relativamente numeroso (per il non grande Teatro Poliziano) e calorosamente plaudente a fine spettacolo.
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