Jazzfest Berlin 2025, il jazz quando il mondo è in fiamme

L’intenso weekend della 62esima edizione di uno dei maggiori festival jazz nel panorama internazionale

DV

13 novembre 2025 • 5 minuti di lettura

Patricia Brennan Septet “Breaking Stretch” (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)
Patricia Brennan Septet “Breaking Stretch” (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)

Berlino, Berliner Festspiele

Jazzfest Berlin 2025

30/10/2025 - 02/11/2025

Berlino, 30 ottobre 2025, 62esima edizione di uno dei maggiori festival jazz nel panorama internazionale, sempre attento alla contemporaneità, e quest’anno più che mai calato nel presente: e dunque, ampio spazio al jazz sperimentale e di ricerca nell’ottavo anno della rinvigorente direzione artistica di Nadine Deveder, e un messaggio che risuona forte nell’arco di tutto il lungo weekend, when will you run when the world’s on fire?, per interrogarsi su cosa significa fare e fruire questa musica, quando il mondo è (già) in fiamme. Risuona forte, questa domanda presa a prestito dal nuovo album di Marc Ribot Map of a Blue City, non solo nelle conversazioni con gli artisti prima dei concerti serali –, fare comunità, resistere, istigare il cambiamento, forti della consapevolezza che il jazz e l’improvvisazione, come ricorda un deciso pro-Palestina Luke Stewart, si fondano sulla libertà d’espressione e sulla trasformazione – ma anche e soprattutto nella musica, nella sua estetica e nei rapporti sociali che la animano.

Una musica che è anzitutto fatta di intesa, di collaborazione, di riconoscimento, come per il duo di Vijay Iyer e Wadada Leo Smith, quest’ultimo alla sua annunciata ultima tournée europea ma più che mai potente e nitido alla tromba, esaltato e messo in rilievo dal contributo di Iyer, qui nel segno della discrezione e del rispetto, in un concerto rigoroso quanto luminoso che attinge al recente lavoro comune Defiant Life (2025, ECM). Un commiato verso il pubblico europeo, quello di Wadada, che speriamo non sia davvero definitivo.

Wadada Leo Smith (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)
Wadada Leo Smith (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)

All’insegna di una magnifica intesa anche il concerto di David Murray con i validissimi Marta Sánchez, Luke Stewart e Russell Carter al suo fianco, artisti impegnati su altri fronti con propri progetti, ma che, mettendosi a servizio del leader e al contempo mantenendo la propria indole e cifra stilistica – notevole in questo senso il solo al contrabbasso di Luke Stewart in area free, come pure l’apporto di Sánchez al piano – spingono propulsivamente la vena ora lirica ora felicemente nervosa e veemente di Murray, specie nelle parti d’improvvisazione, a rappresentare una ‘vecchia guardia’ che instancabilmente ha ancora molto da dire, ricercando la bellezza.

Ma è anche una musica, quella sentita a Berlino, che non manca di farsi più aggressiva ed esplicitamente politica, come nelle incitazioni alla protesta e all’azione – per Gaza, contro le big tech e le misure anti-immigrazione made in USA ma di stanza anche in Europa, e contro l’IA energivora – della statunitense Amirtha Kidambi, all’harmonium e alla voce, con gli Elder Ones: voce limpida e forte, quasi folk-rock, che si innesta su un set dall’impronta free, carico, duro, venato di un blues scuro, e anche questo è il jazz del mondo in fiamme, il jazz di oggi.

Amirtha Kidambi’s Elder Ones (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)
Amirtha Kidambi’s Elder Ones (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)

Un jazz a cui le musiciste danno peraltro un apporto fondamentale, e lo si è visto una volta di più, a Berlino, con Amaryllis di Mary Halvorson in un set cooperativo di grande eleganza e vigore, e ancor più con Patricia Brennan in veste di titolare di un settetto che porta al Jazzfest Breaking Stretch, riconosciuto giustamente dalla critica come uno dei migliori album jazz del 2024, e in cui, accanto al contrabbasso di Kim Cass e alla batteria di Dan Weiss, le percussioni di Mauricio Herrera assecondano un feeling latino tutto newyorchese, ispirato alla tradizione afro-cubana che la stessa Brennan peraltro abbraccia; un incontro fecondo che è spesso invece assente in formazioni avant-guarde della Grande Mela. Sezione fiati imponente e che si spinge al di fuori della comfort zone (Jon Irabagon, sax alto e sopranino, Mark Shim sax tenore, e Adam O’Farrill tromba), e una Brennan al vibrafono – strumento ormai sdoganato, anche grazie a lei, in contesto sperimentale – molto fisica, graffiante, esplosiva: un mood che permea gran parte di questo concerto da ricordare, e che per densità, arrangiamenti, poliritmie e apporti improvvisativi, evoca quasi il sound di una vera e propria orchestra. Chapeau.

Patricia Brennan (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)
Patricia Brennan (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)

E che dire poi della piccola, splendida “perla” che il festival regala, in apertura della stessa serata, ad un pubblico più intimo, in occasione del conferimento del prestigioso premio Mangelsdorff a Lauren Newton, con la cantante a intessere un dialogo complice quanto irriverente con Joelle Leandre? Intesa, rispetto reciproco, sfida e gioco rappresentano anche qui il terreno su cui è possibile prendersi la libertà espressiva, scandagliare le potenzialità della voce quanto del contrabbasso, con stupore e divertimento.

Un festival policentrico, quello berlinese, dagli Stati Uniti all’Europa e ritorno: tra le proposte europee (peraltro di per sé stesse sovranazionali) spiccano senza dubbio la London Jazz Composers Orchestra diretta da Barry Guy, ampliata da Marilyn Crispell e Angelica Sanchez ai pianoforti – musica di grande impatto sonoro e di grande respiro, soli, di nuovo, nel segno della collaborazione di più elementi, direzione precisa ma da primus inter pares – come pure il piano solo di Pat Thomas, figura finalmente di riferimento sulla scena di ricerca internazionale. Sottile lirismo che si insinua in gesti fortemente percussivi, pochi accordi e rapidissimi passaggi alla tastiera, cascate di note e momenti dirompenti, per un set di poco più di mezz’ora ma più che mai intenso. Meraviglia.

London Jazz Composers Orchestra (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)
London Jazz Composers Orchestra (Berliner Festspiele, foto Camille Blake)

A chiudere alla sede principale del festival, la Haus der Berliner Festspiele, infine, di nuovo una grande formazione, la Fire! Orchestra di Mats Gustafsson, in cui tra trascinanti ostinati orchestrali e momenti di rarefazione emergono gli apporti solistici di sodali eccellenti quali Mariá Portugal, Mette Rasmussen e il contributo di Mariam Rezaei, in una versione della Fire! di 18 elementi, quasi interamente al femminile.

Da ultimo, ma non per importanza – per un festival che vuole essere aperto e travalicare i suoi stessi confini, di territorio e di comunità – la lunga settimana di laboratori musicali e artistici con gli abitanti del quartiere multiculturale Moabit, svolta prima e durante il Jazzfest Berlin, e culminata nelle riprese di un film ideato dal basso e a più voci, a sperimentare profondamente il senso del collettivo, quando il mondo è (già) in fiamme.

Jazzfest Community Week Film Lab (Berliner Festspiele, foto Amely Sommer)
Jazzfest Community Week Film Lab (Berliner Festspiele, foto Amely Sommer)