Il teatro musicale denso e vivo di Liberovici
Trilogy in Two è andato in scena al Festival Aperto di Reggio Emilia, preceduto da K&K Elektro Gesängen di Laura Faoro e Massimiliano Vie
La perlustrazione del panorama contemporaneo da parte del Festival Aperto di Reggio Emilia ha offerto sabato 19 ottobre una tappa particolarmente interessante, concretata nella combinazione di due appuntamenti che hanno proposto due differenti prospettive rivolte, diciamo così, alla musica del recente passato e dell’oggi.
Il primo confronto è stato proposto, sul palcoscenico del Teatro Valli, da K&K Elektro Gesängen, progetto nel quale sono stati proposti due brani di Karlheinz Stockhausen quali Spiral per solista e radio a onde corte (1968) e Kathinkas Gesang per flauto ed elettronica (1983). L’omaggio al maestro tedesco ha visto impegnato Massimiliano Viel (ribbon controller, elettronica dal vivo) e Laura Faoro (flauto), coadiuvati dal gruppo Tempo Reale alla regìa del suono (Francesco Canavese), in una produzione della Fondazione I Teatri realizzata in collaborazione con SaMPL–Sound and Music Processing Lab del Conservatorio di Musica ‘C. Pollini’ di Padova.
Se l’omaggio alla storica composizione che Stockhausen aveva ideato per l’Expo di Osaka ci ha restituito una miscela sonora sicuramente ancora interessante ma segnata da una sorta di malinconia timbrica – accettando il rischio di sembrare blasfemi, possiamo dire che anche la musica dei nostri sacri del Novecento può invecchiare – ancora espressivamente efficace si è confermato il brano Kathinkas Gesang, complice il convinto e convincente apporto interpretativo di Laura Faoro, capace di domare le peregrinazioni fisico-timbriche previste dal brano con precisa attenzione.
Per immergerci nella musica – o meglio, nel teatro musicale – dell’oggi ci siamo poi spostati al Teatro Cavallerizza, dove è andata in scena Trilogy in Two di Andrea Liberovici, “opera mosaico” nata da una coproduzione tra Teatro Nazionale di Genova e Fondazione I Teatri / Festival Aperto di Reggio Emilia, con Schallfeld Ensemble. Partendo dalla materia drammaturgica di Faust’s Box, Liberovici ha assemblato in questa originale proposta un’architettura rappresentativa che pare restituire non tanto un tracciato narrativo lineare, bensì una sovrapposizione di piani che evolvono in profondità, giustapposti nella loro sequenza temporale ma intrinsecamente connessi da una sorta di carotaggio espressivo che consegna al pubblico differenti e densi livelli significanti.
Nella combinazione dei diversi mezzi e linguaggi adottati da un autore che ha concentrato nelle sue mani – accettandone i rischi – musica, libretto, video e regìa, ciò che è emerso è stata innanzitutto una significativa coerenza di visione dell’assieme, dove – sotto la direzione musicale attenta ed efficace di Sara Caneva – l’uso degli strumenti acustici ha trovato un naturale (in senso espressivo) prolungamento negli inserti elettronici, e ancora dove l’utilizzo materico delle percussioni – dai martelli allo sciabordio di un cestello di lavatrice, dalle pentole a un frullatore vagamente cageano – ha rinvenuto un ideale controcanto nelle sequenze visive proiettate sul fondo della scena.
Al centro di tutto questo l’autorevole presenza di Helga Davis, già collaboratrice di Philip Glass e Bob Wilson per la ripresa di Einstein on the Beach di qualche anno fa, interprete vocalmente duttilissima, capace di spaziare con assoluta credibilità dalle inflessioni gospel e blues agli intarsi melodici più astratti e geometrici, il tutto attraverso una tessitura sorprendentemente ampia e una coerenza interpretativa che le ha permesso di abitare la scena in maniera coinvolgente ed efficace dall’inizio alla fine della rappresentazione. Compito, questo, peraltro tutt’altro che facile, e che ha previsto di passare attraverso un’indagine drammaturgica che ha messo al centro tre concetti di “bellezza” in conflitto fra loro: la bellezza effimera delle illusioni, la bellezza profonda della solidarietà, la bellezza antica dell’ascolto, incarnate rispettivamente da tre archetipi europei quali Faust come personaggio, Florence Nightingale (fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna) come persona, e Venezia come architettura dell’ascolto.
La Davis ha dato corpo con convinzione ed efficacia alle incarnazioni di questo concetto di bellezza una e trina, passando dalla densità profondamente e drammaticamente umana di Faust’s Box – «la mia paura è niente… senza di me…» – alla rapida ma pregnante fissità dell’omaggio alla Nightingale, raccogliendo tra le braccia una Sara Caneva abbandonata nella rievocazione della Pietà di Michelangelo, per poi dare forma delicatamente intensa al racconto di una memoria dolentemente poetica in Madrigal For 9 Rooms, terza e ultima parte di questo lavoro.
Al termine di quest’opera rimane la conferma dell’efficacia della visione espressiva di Liberovici, capace di parlare dell’oggi con una profondità sincera e mai banale, lontana da sterili esercizi di stile e da muscolari acrobazie tecnologiche, ma sempre intenta, come lo stesso compositore ha annotato a proposito di Candido nel libro Officina Liberovici (Marsilio, 2006), a «compiere un viaggio immobile nelle contraddizioni del nostro presente».
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