Il solito Wilson per Adam's Passion di Pärt

Prima italiana d’uno spettacolo nato nel 2015, che non ha avuto molto fortuna prima d’ora e nemmeno ora a Roma

Adam’s Passion (Foto Kristian Kruuser & Kaupo Kikkas)
Adam’s Passion (Foto Kristian Kruuser & Kaupo Kikkas)
Recensione
classica
Roma, Centro congressi “La Nuvola”
Adam’s Passion
31 Marzo 2023 - 01 Maggio 2023

Racconta Robert Wilson che, invitato ad un’udienza papale, sentì alcuni brani di Arvo Pärt cantati da un coro di voci bianche nella Cappella Sistina. Alla fine si rivolse a Pärt, dicendogli: “Sarebbe stupendo fare un lavoro insieme”. E l’altro rispose: “Perché no?”. Nacque così Adam’s Passion. È una mera ipotesi che l’affresco michelangiolesco della Sistina raffigurante la creazione di Adamo abbia influenzato la scelta del titolo di questo spettacolo che – superfluo precisarlo – non è un’opera non è un oratorio, forse è anche azzardato definirlo spettacolo.

Presentato a Tallin nel 2015, ha avuto soltanto un’altra esecuzione a Berlino nel 2018 ed ora è stato portato a Roma dal Teatro dell’Opera, con la collaborazione di EUR Spa, che ha messo a disposizione un ambiente del centro congressi “La Nuvola”, progettato da Massimiliano Fuksas: quest’ambiente non era l’auditorium (gli autori escludono assolutamente un luogo teatrale tradizionale, infatti a Tallin hanno scelto una fabbrica abbandonata) ma uno spazio rettangolare, dove da una parte stava la tribuna per l’orchestra e il coro e dall’altra il palcoscenico (anche questa disposizione era voluta dagli autori). Il problema è che il palcoscenico era molto piccolo per una sala piuttosto ampia, capace di circa novecento spettatori, e che la visibilità era pessima: anche una persona più alta della media non riusciva a vedere la parte bassa e tutta la zona destra del palcoscenico. E solo alla fine dello spettacolo mi è stato detto da chi stava nelle primissime file che il palcoscenico era dotato di una penisola che s’incuneava tra il pubblico, di cui non avevo avuto il minimo sentore.

Nella prima mezz’ora – la migliore dello spettacolo - quel che si vede è la silhouette di un uomo contro luce, pressoché immobile, tranne qualche lieve movimento dell’uno o dell’altro braccio e qualche lento passo in avanti o di lato: indubbiamente è Adamo, un Adamo di bellezza classica, che potrebbe essere ispirato a un bronzo di Riace, d’altronde è nota l’ammirazione di Wilson per l’arte greca, e non deve essere soltanto un caso che l’attore sia greco. L’altra protagonista di questo quadro è la luce, che si riflette sullo schermo collocato dietro il palcoscenico: una luce di un bellissimo azzurro mare, tagliata a tratti da una lama ora verticale ora orizzontale di lucente bianco.

A questo primo quadro praticamente immobile si succedono poi vari episodi, con la centellinata lentezza di movimenti propria del teatro di Wilson. Ma sono immagini deludenti, non all’altezza di quelle a cui il teatro di Wilson ci ha abituati. Dapprima due uomini, deformati dagli abiti gonfi che li ricoprono, si affrontano in una lotta: Caino e Abele? Compaiono poi delle donne in tuniche bianche, un po’ mediorientale e un po’ spaziali, e poco dopo la terra comincia a popolarsi: arrivano infatti due bambini in pantaloni corti, camicia e bretelle, uno dei quali porta in equilibrio sulla testa un mattone (?). Poco dopo (poco rispetto ai tempi di Wilson, biblici nel duplice senso di quest’espressione) questi due bambini tornano imbracciando due fucili-giocattolo ma non per questo meno minacciosi: l’umanità ha già imboccato la strada che purtroppo conosciamo.

Qui mi fermo, perché proseguire non sarebbe utile. E anche perché Wilson stesso, col suo eloquio misticheggiante, afferma che è sbagliato cercare una spiegazione certa e univoca di quel che si vede (ma non mi pare che nei casi da me citati siano possibili dubbi di sorta). Citiamo allora alcuni estratti delle sue affermazioni a proposito di quest’incontro tra il suo teatro e la musica di Pärt: “Ho allestito uno spazio evocativo, che non imponesse al pubblico la mia visione”. E ancora: “Questa musica […] è legata a qualcosa di profondo che non deve essere esternato e rappresentato”. E ribadisce: “Non è necessario che la scena illustri la musica, o viceversa”.

A differenza di Wilson, Arvo Pärt offre qualche aggancio più preciso allo spettatore-ascoltatore e lascia intendere che Adam’s Passion  parla del tragico destino dell’umanità, che dalla creazione di Adamo e dal suo tradimento causato dall’orgoglio non ha fatto che peggiorare, anche se la sua (di Pärt) fede gli fa sperare nella possibile redenzione.

Purtroppo lo spettacolo di Wilson è una pallida replica di altri suoi ormai lontani spettacoli fatti di luci, di silenzi, di prolungate (semi)immobilità, di suggestioni misteriose. Diverso è l’impatto della musica di Pärt, sempre fondamentalmente uguale a se stessa (a ottantasette anni d’età non è facile né giusto cambiare) ma allo stesso tempo anche sottilmente diversa. Proprio grazie alla sua musica – parlo per me – si sono superati i lunghi momenti in cui dal palcoscenico non veniva nulla di stimolante. Per la cronaca, una sola delle quattro parti di questa musica è stata composta espressamente per Adam’s Passion  ed è la prima, Sequentia.  Adam’s Lament  è stato composto qualche anno prima, mentre Tabula Rasa  (una delle composizioni più note ed emblematiche di Pärt) e Miserere  sono antecedenti di vari decenni.

Di buon livello l’esecuzione musicale, affidata a Tõnu Kaljuste, collaboratore di lunga data di Pärt, che dirigeva l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, da cui provenivano anche Vincenzo Bolognese e Francesco Malatesta, gli ottimi violini solisti di Tabula rasa. I solisti del Miserere  erano cinque voci dell’Estonian Philharmonic Chamber Choir. In palcoscenico agivano attori e danzatori di diverse generazioni, dall’ottantaduenne Lucinda Childs, leggendaria musa di Wilson e di altri registi e coreografi americani, ai giovanissimi allievi della Scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma.

Alla fine molti sono rimasti ad applaudire a lungo ma molti sono usciti rapidamente, senza dar segno di aver troppo apprezzato quello a cui avevano assistito.

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