Il potere in Suor Angelica e il Prigioniero

Terzo e ultimo pannello del Trittico scomposto all’Opera di Roma, con la direzione di Mariotti e la regia di Bieto

Il Prigioniero (Foto Fabrizio Sansoni)
Il Prigioniero (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Puccini e Dallapiccola
23 Aprile 2025 - 02 Maggio 2025

Con il dittico formato da Suor Angelica  e Il prigioniero  si è concluso il progetto denominato Trittico scomposto,  che consisteva nel trasformare il Trittico  di Puccini in tre dittici, abbinando ciascuno degli atti unici pucciniani ad un altro atto unico del Novecento con cui avesse qualche affinità. L’idea ha funzionato, anche e soprattutto perché ha evidenziato che Puccini s‘inserisce a pieno titolo negli sviluppi della musica del Novecento, come spesso si afferma ma raramente viene messo in pratica. Quest’idea è stata ben realizzata le due volte precedenti e anche questa volta, nonostante il nome di Calixto Bieito in locandina potesse suscitare qualche timore. Ovviamente il regista catalano ha le sue idee a proposito di queste due opere, ma non gratuitamente provocatorie e totalmente assurde come altre volte. È partito dall’idea quasi ovvia che l’opera di Puccini e quella di Dallapiccola - forse non a caso composte l’una durante la prima guerra mondiale e l’altra poco dopo la seconda - siano collegata dalla denuncia della privazione della libertà espressa dal fanatismo religioso. E ha allargato questo concetto, affermando che questi due atti unici denunciano anche e soprattutto “l’annientamento delle persone da parte dei regimi autocratici” di ogni genere, come è indubitabile nel caso del Prigioniero. 

Che il mondo del convento di clausura di Suor Angelica, apparentemente al riparo dalle brutture del mondo, sia simile ad una prigione o ad un manicomio ante  Legge Basaglia è evidente: lo era nelle intenzioni di Puccini e Forzano, lo è nella percezione di qualsiasi spettatore dei nostri giorni e Bieito lo sottolinea in modo deciso ma senza fare nulla (o, meglio, quasi nulla: su questo torneremo in seguito) di gratuito e attenendosi alle indicazioni del libretto e della musica, naturalmente a modo suo e secondo la sua cifra stilistica. 

La scena di Anna Kirsch rappresenta il chiostro del convento, con al centro un ridente giardino colmo di erbe e fiori, ma circondato da una gabbia dalle larghe sbarre nere: dunque il convento è in realtà omologabile ad un carcere. Non per nulla inizia con la scena in cui la Suora Zelatrice distribuisce rimproveri e punizioni a converse e novizie, la cui unica gioia è il sole che batte sulla fontana, ma soltanto tre giorni all’anno, come racconta Suor Genovieffa, che confessa anche di avere - cosa vietatissima - un desiderio, cioè vedere un agnellino e poterlo carezzare. Queste due suore, le cui parti sono brevi ma essenziali a stabilire l’atmosfera che regna nel convento, sono molto ma molto bene interpretate, rispettivamente da Irene Savignano e Laura Cherici.

È comprensibile, che, sottoposte ad un tale regime carcerario, alcune suore compiano movimenti compulsivi, talvolta autolesionistici, che rivelano il loro disagio mentale, ma sono casi isolati e le suorine restano nella maggior parte serene e rassegnate, sorrette dalla loro fede semplice e ingenua. Nulla di provocatorio dunque. Bieito mette in rilievo anche la solidarietà di quel gruppo di giovani donne, tra cui l’individualismo non esiste perché non può esistere, tanto che è quasi impossibile distinguere l’una dall’altra. Ci sono anche alcuni dettagli incomprensibili e inutili, ma non fanno troppi danni. Un uomo viene portato in scena in barella, si alza e mostra il suo volto insanguinato: ci è stato poi spiegato che è Mattia Olivieri, il protagonista de Il Prigioniero,  ma perché? E quando si scopre la maternità di Angelica, una delle suore prova le doglie del parto e perde sangue dal grembo: probabilmente Bieito vuole dire che anche altre suore sentono l’istinto materno e vorrebbero avere un figlio, ma anche qui ci si chiede perché esprimere quest’idea in modo così sanguinolento e disturbante oltre che di difficile interpretazione.

È invece una licenza giustificabilissima far svolgere l’incontro-scontro tra la Zia Principessa e Suor Angelica non nel chiuso del parlatorio ma all’aperto nel chiostro, sotto gli occhi di tutte le altre suore, che partecipano al dolore straziante di Angelica per la morte del figlio, che risveglia il loro istinto materno, tanto che avvolgono i loro abiti e ne fanno un fagotto che stringono al petto, cullandolo. Ed è un’idea nuova ma interessante rappresentare la Zia Principessa non come una specie di mostro nero, gelido, feroce e spietato ma come una donnetta vestita da borghesuccia, che bada ai propri interessi ma in fondo è un po’ incerta e debole, più meschina e anaffettiva che perfida: la banalità del male. Marie-Nicole Lemieux non ha bisogno di forzare e scurire artificiosamente la sua voce di vero contralto e fa della Zia Principessa un personaggio inquietante, proprio perché non è un mostro disumano ma è una donna tremendamente umana, la donna della porta accanto, che sembra normale ma è capace di cose orribili.

Corinne Winters è un’ottima Suor Angelica e proprio in questa scena dà il meglio di sé, con un crescendo emotivo che inizia con “Sposa la piccola Anna Viola?”, sale con “Tutto ho offerto alla Vergine” e culmina con “Senza mamma”: non gonfia la voce, sembra parlare con se stessa - ed effettivamente è così - ed è commovente, struggente, straziante, senza ricorrere a un sentimentalismo strappalacrime ma restando nella superiore sfera del tragico. È questa la climax  dell’opera, poi inevitabilmente la tensione cala nella scena del suicidio e della morte di Angelica, comunque interpretata in modo esemplare dalla Winters.

Michele Mariotti ha chiesto all’orchestra di essere più trasparente e leggera di come generalmente la si ascolta in quest’opera e di evitare turgori inadatti a quel mondo di suorine, che non è melodrammatico nel significato deteriore del termine. Questo non significa assolutamente che la sua direzione fosse fredda e distaccata, al contrario era molto attenta e reattiva alle piccole e grandi emozioni di quelle suorine e partecipe alla loro vita, ai loro desideri, alle loro pene, alle loro emozioni. Una Suor Angelica da incorniciare.

Con Il Prigioniero  di Luigi Dallapiccola - composto tra il 1944 e il 1948, date che parlano da sole - si passa dal convento di clausura a una prigione dell’Inquisizione spagnola. È chiaro che quella prigione è figura del carcere oscuro e crudele in cui le dittature fasciste avevano rinchiuso gran parte dell’Europa. E non è un caso che Il compositore istriano abbia iniziata la composizione del Prigioniero durante la Resistenza, mentre è forse un caso ma assume comunque un valore simbolico la coincidenza di queste rappresentazioni romane con la festa della Liberazione.

Il Prigioniero protagonista dell’opera si lascia illudere dal Carceriere, che si spaccia per suo amico, lo chiama fratello e riesce a tirarlo dalla sua parte ma è tutta una finzione, un inganno perché in realtà è il Grande Inquisitore, l’aguzzino che alla fine lo condurrà al rogo. Il sottotesto è una denuncia dei regimi autoritari, che con le promesse, le illusioni e le menzogne della loro propaganda - in questo fascismo e nazismo furono maestri - riescono a guadagnarsi la fiducia di coloro che poi invieranno alla morte, che sia tra le fiamme del rogo come nell’opera o tra gli orrori della guerra. 

Non solamente per l’argomento ma anche per il linguaggio musicale quest’opera rappresentò al suo apparire una totale novità nell’Italia di quegli anni, poiché portava la temuta dodecafonia nei nostri teatri d’opera. Oggi questa musica non ha più la forza dirompente della novità e anche il testo, che Dallapiccola stesso ricavò da due racconti del secondo Ottocento, ha perso in parte il suo significato di protesta e di condanna dei regimi dittatoriali e autocratici, che invece era chiaro quando apparve. Forse gli sviluppi di questi ultimi tempi lo faranno tornare d’attualità. 

Ancora oggi conserva una sua forza introversa, che giunge all’ascoltatore attuale non senza qualche fatica, anche perché in questo caso la regia di Bieito era una non regia. Vero è che in quest’opera non c’è quasi azione, tanto che la si esegue più spesso in forma di concerto che in teatro, ma questo non giustifica che dalla regia vengano poche, generiche e, direi, svogliate indicazioni. Se in tal modo la seconda parte dell’opera perde molto della sua forza originaria, resta conturbante il prologo, quando la madre del prigioniero vede in sogno l’ombra di Filippo II di Spagna avvicinarsi e trasformarsi nell’Immagine della morte. È una pagina di grande potenza espressiva, cantata splendidamente da Angeles Blancas, che ha superato senza sforzo apparente le grandi difficolta vocali, musicali ed espressive di questa scena potentemente drammatica, che conserva qualcosa del periodo espressionista. Mattia Olivieri nella parte del Prigioniero era preciso e inappuntabile ma generico. Conservava invece il suo carattere insinuante e nefando il Carceriere-Inquisitore, ottimamente interpretato da John Daszak. La direzione di Mariotti, corretta ma non particolarmente centrata, per non dire pallida, non aiutava la musica di Dallapiccola ad esprimere tutta la sua tensione drammatica.

C’erano vari posti vuoti in sala ma il pubblico era comunque abbastanza numeroso e alla fine ha applaudito a lungo, tuttavia senza troppo entusiasmo.

 

 

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