Il fiume della libertà

La cornice scenografica ha mostrato soluzioni ingegnose per l'interpretazione dello spazio, raffinato è stato l'uso delle luci. La compagnia di canto, sebbene costituita da intepreti specializzati in questo repertorio, non ha sempre soddisfatto le esigenze interpretative proprie della partitura di Janácek.

Recensione
classica
Gran Teatro La Fenice Venezia
Leos Janacek
17 Gennaio 2003
"In Kát'a Kabanová Janácek drammatizza il conflitto tra l'animo libero e idealistico e i dettami, repressi e corrotti, di una società gretta, che si riflette nello scambio incessante tra il mondo naturale, simboleggiato dal fiume, e i limiti "ibseniani" della famiglia Kabanov, dominata dalla sua spietata matrona". Le parole, con cui David Pountney riassume la sua interpretazione registica nel programma di sala, trovano perfetta realizzazione in una scenografia che del fiume e delle mura domestiche fa i due spazi onnipresenti, in continua comunicazione tra loro grazie ad un ingegnoso meccanismo, per cui le pareti possono scivolare, costruendo nuovi punti di vista, da cui vedere la casa: l'interno diventa esterno e viceversa, l'effetto è quello della carrellata cinematografica. La definizione degli ambienti è, quindi, completata da un sapientissimo e raffinato uso delle luci, enfatizzato dal rivestimento specchiato, che circonda la scena. Il fiume e le mura domestiche; la libertà e la costrizione, conflitto questo ampiamente riprodotto dalla musica di Janácek, che associa alla passionalità di Kát'a un canto fluido e spiegato, quasi eco pucciniana, alla crudeltà della Kabanicha e ai battibecchi domestici uno stile spezzettato, nevrotico. Ma è proprio nell'interpretazione della "prosa musicale", tratto caratteristico di questa opera, che lo spettacolo sembrerebbe aver mostrato il suo punto debole. Per il fatto di essere costruito su frasi altamente irregolari, asimmetriche, questo particolare stile compositivo rischia di risultare fortemente frammentario all'ascolto, se non è tenuto insieme dalla forza persuasiva della recitazione. Ancora più frammentario per la totale incomprensibilità del testo. Una scrittura vocale così concepita richiede grandi doti di agilità, così da realizzare sia le minime inflessioni della "melodia parlata", che gli ariosi più cantabili. La compagnia di canto, sebbene, costituita da validissimi interpreti, specializzati in questo repertorio, sembrerebbe non aver soddisfatto a pieno queste esigenze interpretative. Gwynne Geyer (Kát'a), in particolare, è apparsa piuttosto rigida e distante, tratti questi evidenti soprattutto nell'ultimo quadro: qui le parole pronunciate sono tasselli di un discorso articolato, sottolineato in ogni sua parte dalla musica, se non sono sostenute da una adeguata espressività nella recitazione, esse perdono di significato. In questo caso anche la regia non ha offerto soluzioni adeguate, costringendo gli interpreti a dei fermi immagine, che la partitura non richiedeva. Buona la prova dell'orchestra e la direzione di Lothar Koenigs.

Interpreti: La Kabanicha: Armstrong; Tichon: Homberger; Kát'a: Geyer; Varvara: Gertseva; Dikoj: Kuznetsov; Boris Forbis

Regia: David Pountney

Orchestra: Orchestra del teatro La Fenice

Direttore: Lothar Koenigs

Coro: Coro del teatro La Fenice

Maestro Coro: Piero Monti

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