Il canto di un’umanità smarrita fra barocco e contemporaneità

A Francoforte L’Ensemble Modern presenta la novità “A Wintery Spring” di Haddad e l’oratorio “Il serpente di bronzo” di Zelenka

Il serpente di bronzo
Il serpente di bronzo
Recensione
classica
Francoforte sul Meno, Bockenheimer Depot
Wintery Spring e Il serpente di bronzo
22 Febbraio 2018 - 05 Marzo 2018

Un accostamento inedito, se non inusitato, è la cifra della nuova collaborazione fra l’Oper Frankfurt e l’Ensemble Modern, che segue di un anno la stimolante rassegna di heim:spiele  presentata nella scorsa stagione. Al Bockenheimer Depot di Francoforte va in scena una coincidenza di opposti fra il linguaggio della contemporaneità nel quale si esprime Saed Haddad e quello del barocco religioso di Jan Dismas Zelenka. Indubbiamente si coglie uno sforzo di sintesi nel lavoro drammaturgico a monte nello strano connubio fra la novità di A Wintery Spring, “lamento drammatico” costruito su testi poetici di Khalil Gibran, e Il serpente di bronzo, cantata sacra composta per Dresda nel 1730. Il primo, privo di una drammaturgia evidente, viene organizzato in tre blocchi (“La nuova frontiera”, “I miei conterranei” e “Morto è il mio popolo”) come il secondo, che invece è un vero e proprio pezzo da teatro come gli oratori del barocco romano (“Mosè è colpevole”, “Il sogno di Mosè” e “Mosè e il segno”).

L’esilio è il filo rosso che lega quei due lavori altrimenti così lontani. Esilio è quello del giordano Haddad trapiantato in Europa che usa i versi di Gibran, libanese “esiliato” da giovanissimo emigrante in America e per sempre aggrappato alle proprie radici, e soprattutto un linguaggio musicale ricchissimo di rimandi alla tradizione mediorientale. L’esilio è anche quello del popolo guidato da Mosè nel lungo viaggio verso la terra promessa, che in quel viaggio smarrisce la fede e da Dio è punito con il supplizio dei serpenti. In entrambi si insiste su un senso, molto contemporaneo, di disorientamento identitario che è manifesto nel primo e trasfigurato nel messaggio biblico del secondo. A quello smarrimento Haddad non offre risposte, tanto meno dopo l’amara disillusione di quelle recenti primavere arabe gelate da un inverno tanto inatteso quanto violento negli esiti, mentre Zelenka lo risolve nel dogma confessionale della parabola biblica.

La giovane regista Corinna Tetzel insiste molto sui fili sottili che legano i due lavori, fin dalla cornice unica della scena di Stephanie Rauch – una piattaforma dalla superficie irregolare di un suolo sconnesso che ha il colore della sabbia – e la contemporaneità, per una volta pertinente, dei costumi di Wojciech Dziedzic (tranne per Mosè, simbolo dell’identità smarrita di un popolo) e soprattutto delle proiezioni video di Mario Spiegel che intrecciano le immagini rivolte dei giovani arabi di qualche stagione fa con la scrittura di Gibran.

L’esecuzione musicale è affidata per entrambi i pezzi all’Ensemble Modern diretto da Franck Ollu: ovviamente i bravi strumentisti giocano in casa con gli elaborati preziosismi timbrici della trama intessuta da Haddad, ma anche in Zelenka offrono una prova brillante per il suono terso e le dinamiche stringenti. In scena, tutti i giovani interpreti in gran parte della compagine vocale dell’Oper Frankfurt – Deanna Pauletto, Judita Nagyová e Brandon Cedel per Haddad, e gli ultimi due anche in Zelenka con Cecelia Hall, Dmitry Egorov e il bravo Michael Porter – partecipano con pari impegno alla riuscita della serata. Pubblico non foltissimo alla prima ma generoso di applausi.

 

 

 

 

 

 

 

 

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