Il belcanto della foresta

A Bad Wildbad il Belcanto Opera Festival

Recensione
classica
Difficile a credersi, ma c’è stata un’epoca, nemmeno troppo lontana, in cui il belcanto la faceva da padrone anche sulle scene tedesche. Ai più scettici una significativa testimonianza veniva offerta nell’annuale edizione di “Rossini in Wildbad”, l’annuale Belcanto Opera Festival, ospitato nella cittadina termale della Foresta Nera settentrionale. Rompendo una tradizione ultradecennale, anziché dal repertorio minore italiano di primo Ottocento l’annuale riproposta proveniva dalla vicina Stoccarda e dalla feconda vita musicale della sua corte. Nella capitale del Württemberg dal 1819 fino praticamente alla sua morte l’Hofkapellmeister Peter Joseph Lindpaintner fu a animatore infaticabile e, come oggi si direbbe, compositore in residenza. Grande estimatore di Rossini, portò in scena un gran numero di lavori del pesarese fra cui i meno noti “Armida”, “Ricciardo e Zoraide”, “La donna del lago” e “Zelmira”. Dal suo variegato catalogo di compositore, a Bad Wildbad si è ripescato il grand-opéra storico “Il vespro siciliano” che vide la luce a Stoccarda nel 1843, ossia dodici anni prima dei verdiani “Vêpres siciliennes”. Se la macrostoria è la stessa, ossia la rivolta dei siciliani contro i francesi nel 1282 (e in entrambe la presenza di Giovanni da Procida assicura, in un certo senso, una patente di autenticità storica), la microstoria è tutt’altra. In questo “Vespro” si racconta di come re Carlo I d’Angiò in persona contenda al nobile palermitano Fondi la remissiva consorte Eleonora tenuta celata finché un intrigo del malvagio Drouet non la rileva agli occhi del sovrano in tutta la sua bellezza. Di certo in Lindpaintner manca la fulminante sintesi drammatica verdiana anche nella declinazione grandoperistica dei “Vêpres”. Né aiuta il libretto di Heribert Rau, che si disperde in una messe di personaggi e vicende minori, che inaspettatamente diventano motore dell’azione fino al catastrofico finale con tanto di incendio della flotta di re Carlo diretta a Napoli. Musicalmente c’è certamente un occhio di riguardo al gusto francese, culla del genere, con le inesorabili torture vocali equamente distribuite fra ruoli maggiori e comprimari, ma il modello weberiano è anche ben presente (specie nell’Ouverture) e non manca il colore italiano nel profluvio di arie, ballate, duetti e concertati che si succedono per più di tre ore. Italiana era anche la versione scelta a Wildbad, un vero profluvio di esuberanze melodrammatiche rigorosamente in rima baciata nella traduzione dell’epoca firmata dal baritono e “Kammersänger del Württemberg” Christian Wilhelm Häser che denuncia più di una contaminazione locale (quel “Sicilia sovra tutto” di Procida non può non evocare il Lied der Deutschen).

È chiaro che operazioni di recupero come questa hanno un senso se vengono messi in campo mezzi adeguati. Da questo punto di vista lo sterminato cast, fatto per lo più di giovani, era perfettamente all’altezza dell’occasione: re Carlo era il brillante baritono Matija Meić, Eleonora una sicura Silvia Della Benetta, Fondi era un Danilo Formaggia ai limiti delle proprie possibilità mentre Drouet un ancora acerbo César Arrieta. Fra gli altri, si facevano notare il quartetto dei nobili siciliani (Carlos Natale, Damian Whiteley, Gheorghe Vlad e Marco Simonelli) e il paggio Albino (Ana Victoria Pitts). Molto efficace anche il piccolo ma agguerrito coro della Corale Bach di Poznań. Alla testa dei Virtuosi Brunensis, orchestra in residenza al festival da molti anni, Federico Longo assicurava una direzione funzionale ma non specialmente attenta all’equilibrio sonoro.

Su scala decisamente più ridotta, l’altra riscoperta del festival: “Le cinesi”, opera da salotto per giovani cantanti messa in musica da Manuel García. Noto soprattutto per essere stato tenore e per il curriculum rossiniano (era lui l’Almaviva della prima romana del “Barbiere”) oltre che padre della Malibran e della Viardot, García fu anche impresario e compositore. Tipico prodotto di genere nel gusto salottiero dell’epoca, l’operina accompagnata dal solo pianoforte ripesca il vecchio libretto di Pietro Metastasio del 1735 già messo in musica da una lunga lista di compositori, aperta da Caldara e che comprende, fra i molti altri, Gluck e Jommelli. Un secolo dopo, nel 1831, il piccolo saggio metastasiano sui generi tragico, comico e pastorale aveva perduto certamente di attualità, ma manteneva il gusto per il gioco musicale leggero affidato a un quartetto di voci che sulla scena del ripristinato Regio Teatro delle Terme erano quelle agili e fresche di Sara Bañeras, Silvia Aurea De Stefano, Ana Victoria Pitts e César Arrieta, debitamente preparati dal rossiniano doc Raúl Giménez. La messa in scena minimale ma spiritosa la firmava il padrone di casa Jochen Schönleber, mentre Michele d’Elia accompagnava al pianoforte con distaccata eleganza.

Naturalmente non mancava l’annuale omaggio al nume tutelare del festival, Gioachino Rossini, ospite illustre della stazione termale nel 1856. Di lui veniva riproposto un brillante “Inganno felice” nell’allestimento già visto al festival nel 2005 ma con un cast rinnovato, che vantava la presenza accattivante di Lorenzo Regazzo (Tarabotto), di Silvia Della Benetta (Isabella) oltre che di voci giovani di sicuro interesse come il buffo Tiziano Bracci (Batone), il tenore Artavazd Sargsyan (Bertrando) e il baritono Baurzhan Anderzhanov (Ormondo). Altrettanto riuscita la seconda proposta rossiniana, “Bianca e Falliero”, presentata sull’angusta scena della Trinkhalle in un nuovo allestimento dal segno fin troppo essenziale di Primo Antonio Petris. Non è certo il Rossini più inventivo, gli autoimprestiti si sprecano, né l’intreccio è particolarmente originale, ma la scrittura vocale è fatta per far brillare il quartetto dei protagonisti e particolarmente l’eroe Falliero. A Bad Wildbad brillava il contralto Victoria Yaroveya, che conquistava il pubblico grazie a una tecnica solidissima e un timbro accattivante. Bianca era Cinzia Forte, soprano rossiniano di lungo corso, che offriva nel complesso una buona prova, un po’ incrinata nel rondò finale, lo stesso della “Donna del lago”. Un sicuro Contareno era il tenore Kenneth Tarver e Capellio il baritono Baurzhan Anderzhanov dagli ottimi mezzi vocali ma non pienamente convincente sul piano espressivo. Per entrambe le produzioni rossiniane si ritrovavano i Virtuosi Brunensis guidati con autorità e competenza da Antonino Fogliani. A lui, dal 2011 direttore musicale del Belcanto Opera Festival, vanno riconosciuti l’ottimo lavoro fatto sull’orchestra in questi anni e il merito, diviso con il sovrintendente Jochen Schönleber, di aver portato il festival a un livello tale da renderlo uno degli appuntamenti estivi irrinunciabili per gli amanti del belcanto.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Piace l’allestimento di McVicar, ottimo il mezzosoprano Lea Desandre

classica

A Bologna l’opera di Verdi in un nuovo allestimento di Jacopo Gassman, al debutto nella regia lirica, con la direzione di Daniel Oren

classica

Napoli: il tenore da Cavalli a Provenzale