Fidelio, dramma contemporaneo

Al Teatro Comunale di Bologna con la direzione di Asher Fisch e la regia di Georges Delnon

Fidelio (Foto Andrea Ranzi-Studio Casaluci)
Fidelio (Foto Andrea Ranzi-Studio Casaluci)
Recensione
classica
Teatro Comunale di Bologna
Fidelio
10 Novembre 2019 - 16 Novembre 2019

Penultimo allestimento della stagione del Teatro Comunale di Bologna è il beethoveniano Fideliopièce à sauvetage in cui un uomo ingiustamente incarcerato, Florestan, viene liberato dalla moglie Leonore, introdottasi nel suo luogo di detenzione sotto le mentite spoglie (maschili) di Fidelio. La direzione di Ascher Fisch in testa all’orchestra del Teatro Comunale di Bologna riesce nell’arduo compito di equilibrare l’imponente portata sonora della scrittura orchestrale beethoveniana con le necessità dell’espressione vocale. Se l’opera era pensata dall’autore come un veicolo di messaggi politici e filosofici, nella produzione di Georges Delnon tali concetti vengono esasperati con decisione.

L’impianto scenico (Kaspar Zwimpfer) mira a stimolare la riflessione sul ripetersi ciclico di contesti di oppressione che producono vittime e carnefici. L’aura cupa di cui è pervaso proviene soprattutto da riferimenti a precisi tipi di prigionie: quelle dei lager nazisti, quelle della Stasi della Germania Est e quelle dei contemporanei centri di detenzione per migranti.

Tra i prigionieri ingiustamente detenuti vi è Florestan (Erin Caves), la cui colpa è quella di essere un intellettuale politicamente attivo, tanto pericoloso che il suo aguzzino don Pizarro (Lucio Gallo) lo vorrebbe morto. A far riflettere sull’importanza delle responsabilità anche dei complici è la connivenza del capo della prigione Rocco (Petri Lindroos), il quale pur disapprovando, accetta pavido e corrotto la situazione e non prende una posizione contraria. Marzelline (Christina Gansch) è la rappresentazione della condizione femminile in una società violenta e diseguale: sottomessa, ingenua e anch’essa vittima di uomini predatori. Ma è proprio l’intervento di una donna, Leonore/Fidelio (Simone Schneider) a interrompere e modificare lo status quo, ancor prima che lo faccia un’autorità statale (incarnata nella persona del Governatore don Fernando, Nicolò Donini).

Agli applausi finali in sala Bibiena si unisce qualche ingiusta manifestazione di disapprovazione per una regia che, rinnegando una linea patinata, ha piuttosto scelto quella dell’arte impegnata: non intrattiene, ma procura stimoli di riflessione, agendo sulla coscienza e sullo spirito critico dei fruitori. Ed in questo è in perfetta linea con le intenzioni primarie di Beethoven, che aveva scelto la forma della composizione operistica per dare rappresentazione di un ideale raggiungimento della pace e fraternità tra popoli.

Anche il finale, che Beethoven scrive positivo, lascia un senso di inquietudine: il bianco accecante degli abiti del coro (preparato da Alberto Malazzi) nella sua uniformità fa sembrare tutti in divisa, sottolineando inutilità di una massa non critica e suscitando il sospetto che i membri di questa apparentemente nuova, ripulita società siano in realtà indottrinati da un nuovo slogan, ma non intimamente consapevoli che è l’unione delle responsabilità sociali dei singoli a vegliare che non si ripetano orrori e violenze collettive. 

 

 

 

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