Du Fay e quell’aureo Quattrocento

A Firenze, coinvolgente concerto monografico della Cappella Pratensis per il festival Floremus

ET

16 settembre 2025 • 3 minuti di lettura

Cappella Pratensis (Foto Jacopo Santini)
Cappella Pratensis (Foto Jacopo Santini)

Auditorium di Sant'Apollonia, Firenze

Cappella Pratensis

13/09/2025 - 13/09/2025

C’è un po’ l’abitudine di considerare la musica polifonica del primo e medio Quattrocento, i famosi fiamminghi o “oltremontani”, come li si chiamava un tempo, come un repertorio più astratto e difficile rispetto ad una pienezza della polifonia identificata, sulle orme di Monteverdi, nella prima prattica databile da Josquin. Idea completamente ribaltata dall’emozionante concerto dell’ensemble Cappella Pratensis (Tim Braithwaite e Andrew Hallock, soprani, Lior Leibovici controtenore, Peter de Laurentiis tenore, Jonty Coy basso), sabato nell’auditorium di Sant’Apollonia per il festival Floremus dell’ “L’Homme Armé”. Il programma consisteva in nell’esecuzione di quella che è probabilmente l’ultima messa, composta negli anni Sessanta del XV secolo, da Guillaume Du Fay, la messa Ecce Ancilla Domini, con la ricostruzione di questa toccante celebrazione dell’Annunciazione, cara alla cattedrale di Cambrai e alla corte borgognona, al punto da essere denominata Missa aurea. Il tutto secondo la liturgia della messa del mercoledì delle Quattro Tempora dell’Avvento, ossia, oltre ai pezzi polifonici di Du Fay (Kyrie, Gloria, Credo, Santus, Agnus Dei), il “proprio” gregoriano (introito, graduali, offertorio, prefazio, communio), in alcuni passi fornito di armonizzazione sulle quattro parti secondo un prassi allora diffusa tra i cantori, e prima dell’Agnus Dei l’intonazione gregoriana corrente del Pater Noster. E ancora, la suggestiva riproposta della scena dell’annunciazione secondo il Vangelo di Luca, al tempo di Du Fay affidata ai ragazzi del coro di Cambrai in costume, con il dialogo fra l’arcangelo e Maria, inscenato e cantato da Tim Braithwaite e Andrew Hallock. Una ricostruzione efficacissima, che ci restituiva in pieno l’incanto di una ritualità ricca, aurea, ornata, secondo il gusto borgognone a suo tempo tratteggiato da Johan Huizinga in un testo celebre, L’Autunno del Medioevo.

Ma ancor più interessante era constatare l’evoluzione del linguaggio di Du Fay rispetto, per esempio, alle sue composizioni italiane di trent’anni prima, come il mottetto Nuper rosarum flores per la riconsacrazione della cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore dopo che era stata eretta la cupola del Brunelleschi: un’evoluzione che porta verso una sonorità più piena e suadente, che la Cappella Pratensis ha realizzato con un encomiabile equilibrio di nitore delle linee e risalto di armonie di cristallina intonazione. Questo incanto era palpabile nell’attenzione speciale del pubblico, che poi, dopo il concerto, ha seguito le spiegazioni di Peter de Laurentiis sul particolare assetto di questa esecuzione. Non avevamo mai visto infatti cinque cantori aggruppati in meno, diremmo, di due metri quadri intorno al classico librone, come certi angeli musicanti della pittura del Quattrocento, e come questi condotti dal gesto piccolo e misurato delle tre dita della mano destra di Tim Braithwaite; per non dire di alcune particolarità di questo gesto, mai viste da ascoltatori pur di lunga data di questo repertorio, come l’indice in su e in giù per indicare la collocazione del semitono, o, nei pezzi gregoriani, l’indicazione delle altezze sulle falangi delle dita, come nella mitica “mano guidoniana” di cui generazioni di studenti di storia della musica hanno cercato invano di capire il reale funzionamento. Diciamo ciò perché il gruppo ci ha dato l’impressione di essere completamente immerso in questo mondo musicale lontano e affascinante, non solo per scrupolo filologico, ma per una sorta di fascinosa immedesimazione. Successo ottimo, con molti e prolungati applausi.