Die Dreigroschenoper  al Romaeuropa Festival

Discutibile la regia di Barrie Kosky ma perfetta la realizzazione da parte del Berliner Ensemble

Die Dreigroschenoper  
Die Dreigroschenoper  
Recensione
classica
Teatro Argentina, Roma
Die Dreigroschenoper  
11 Ottobre 2022 - 15 Ottobre 2022

Die Dreigroschenoper, nata dalla collaborazione paritaria tra Bertolt Brecht e Kurt Weill, è uno dei capolavori del teatro musicale del ventesimo secolo, e sottolineo musicale. Ma in quasi cent’anni (la prima esecuzione fu nel 1928) è passata attraverso continui riadattamenti, riduzioni e trasformazioni e progressivamente la musica di Weill ha perso terreno, fino al punto che in alcune edizioni ne restavano alcune canzoni (che sono diventate i pezzi più famosi dell’Opera da tre soldi) e poco altro. Ma nel 2007 la produzione di Robert Wilson al Berliner Ensemble (vista anche in a Spoleto e Reggio Emilia ) recuperava tutta la musica di Weill.

Anche in questa nuova produzione realizzata dal Berliner Ensemble - che potrebbe essere definito il santuario brechtiano, se la parola santuario non suonasse decisamente stonata in riferimento a Brecht - la musica di Weill è integra, come afferma il regista australiano Barrie Kosky. Anzi c’è qualcosa di più, come la canzone di Lucy nel terzo atto, di cui è restata soltanto la stesura con accompagnamento del pianoforte, dato che si decise di tagliarla prima della prima, forse perché avrebbe richiesto un vero soprano drammatico: non si riesce a spiegare altrimenti l’eliminazione di uno dei momenti più belli della musica di Weill. 

Dunque abbiamo assistito ad un’edizione supercompleta e superfedele? NO, assolutamente NO. E non perché Kosky si prenda alcune piccole libertà con la musica, come ripetere alcuni frammenti dei vari “numeri” in contesti diversi e dare spazio a un paio di improvvisazioni jazz della batteria. Questa volta non è Weill ma Brecht ad essere stato totalmente e volutamente travisato. È fuori discussione che un lavoro teatrale – soprattutto Die Dreigroschenoper, che è nata come una critica alla società dei suoi tempi - non debba essere mummificato ma possa e debba continuare a vivere e a cambiare, per continuare a parlare da pari a pari agli spettatori di cent’anni dopo. Ma Kosky, più che attualizzare l’opera di Brecht e Weill, l’annacqua e ne fa qualcosa che sta tra il vecchio varietà televisivo e la musical comedy  di Broadway, con alcuni momenti che virano decisamente verso il farsesco, come afferma Kosky stesso. E così suscita nel pubblico molte risate, grida da concerto rock e fischi all’americana. In particolare riscuote grande successo la facile, artificiale (c’era la complicità di un finto spettatore) e ormai scontata interazione col pubblico, allorché Mackie Messer (interpretato da Nico Holonics, non meno che straordinario) si rivolge al pubblico, sfoderando nell’occasione un ottimo italiano, per invitarlo a cantare in coro una canzone (non so dire se fosse sempre la stessa o se cambiasse ogni sera). Forse Kosky (ma non direi proprio che fosse questa la sua intenzione) voleva in tal modo dimostrare che la gente è disposta a seguire chiunque sia abbasta abile da abbindolarla?

Così non c’è più la graffiante critica di Brecht alla società capitalista: eppure sarebbe ancora attuale e i nostri tempi avrebbero fornito a Kosky spunti in quantità sovrabbondante. Sparisce il losco sottobosco di ladri e puttane su cui regna Mackie Messer (significa coltello: già questo sarebbe indicativo), il quale viene trasformato in un simpatico e seduttivo intrattenitore, mentre il capo della polizia Tiger Brown è ridotto ad un omuncolo debole e ridicolo, forse attratto sessualmente da Mackie. Il centro dell’opera diventa invece il triangolo amoroso Mackie – Polly – Lucy: le due donne si litigano l’uomo, che da parte sua si divide tra loro senza tanti problemi. Va a finire che anche la musica di Weill, sebbene eseguita nella sua completezza, non ne esce troppo bene, perché la sua simbiosi col testo è tale che sminuendo l’uno anche l’altra non può non risentirne.

Detto ciò, bisogna riconoscere che lo spettacolo è perfettamente realizzato (è perfino superfluo sottolineare la bravura degli attori, cantanti e musicisti del Berliner Ensemble), molto teatrale (Kosky conosce benissimo il mestiere di regista) e soprattutto divertente, almeno a giudicare dagli applausi entusiastici della grande maggioranza degli spettatori che straesaurivano il Teatro Argentina. Forse bisogna ringraziare Kosky perché in mezzo a pandemia, guerre, siccità e carestie ci ha fatto fare qualche risata? O forse questa sterilizzazione di Brecht è un altro segno (fortunatamente meno esiziale degli altri) dei tempi difficili che la nostra società sta attraversando?

Come che sia, il Romaeuropa Festival ha fatto benissimo a far conoscere anche al pubblico italiano uno degli spettacoli di cui più si parla tra quelli attualmente in scena nei principali teatri europei. 

 

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Torino: Frizza sul podio e regia di Maestrini

classica

I poco noti mottetti e i semisconosciuti versetti diretti da Flavio Colusso a Sant’Apollinare, dove Carissimi fu maestro di cappella per quasi mezzo secolo

classica

Arte concert propone l’opera Melancholia di Mikael Karlsson tratta dal film omonimo di Lars von Trier presentata con successo a Stoccolma nello scorso autunno