Cinquant’anni di arte moderna all’Opera di Roma

In scena un dittico con gli spettacoli commissionati a mezzo secolo di distanza a Calder e Kentridge, due artisti diversissimi, che hanno però  in comune la concezione dell’arte come qualcosa che non sia immobile ma in continua mutazione

Work in progress (Foto Yasuko Kageyama)
Work in progress (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Roma, Tearo dell’Opera
Calder e Kentridge
10 Settembre 2019 - 15 Settembre 2019

Nel 1968 l’Opera di Roma commissionò uno spettacolo all’americano Alexander Calder, l’inventore dell’arte cinetica. I suoi mobiles sono esposti in tutti maggiori musei del mondo: sono formati da figure geometriche nei colori primari, rosso, giallo, azzurro, bianco, divise da linee nere.  Sembrerebbe la descrizione di un quadro di Mondrian, ma le figure geometriche di Calder non sono assolutamente perfette e tirate con la squadra, anzi sono sempre sbilenche - sono perfetti solo i cerchi, che Mondrian non usa mai – e soprattutto non sono immobili ma in perenne movimento, perché le linee nere che le separano sono dei leggeri fili di ferro in equilibrio instabile, che si muovono ad ogni alito di vento. Il perfetto, eterno, immobile, piatto universo geometrico di Mondrian si è trasformato in un leggero, giocoso, imprevedibile mondo in continua trasformazione, in una installazione tridimensionale che sembra animata e offre allo spettatore uno spettacolo sempre diverso. Ma solitamente i mobilesdi Calder sono chiusi nei musei, dove non c’è mai un soffio d’aria, e quindi sono costretti a una triste immobilità, che contraddice la loro natura e il loro stesso nome. In teatro invece rivivono ed esaltano la loro innata natura sorprendente e spettacolare. Per di più il palcoscenico e le sue attrezzature offrono a Calder altre possibilità, quindi non ci sono soltanto i mobiles: due dischi (il sole e la luna) attraversano la scena appesi a fili invisibili; nel mare giocano varie creature marine, soprattutto una grande stella marina che, invece di essere costretta sul fondo come in natura, rimbalza allegramente di qua e di là e salta sopra le onde come nemmeno un delfino; dal basso sale un albero carico di uccelli fosforescenti. E così via, in una serie ininterrotta di immagini leggere e vivaci, che non durano mai di più di quel che è strettamente necessario a goderne l’effetto, cosicché lo spettacolo dura sì e no venti minuti. Il momento che resta più impresso nella memoria è l’entrata in scena di dodici ciclisti coloratissimi, che compiono perfette evoluzioni geometriche, disegnando cerchi, ellissi, spirali, fiocchi: la fantasiosa e sempre vivacissima geometria in movimento di Calder trova qui la sua realizzazione più perfetta, che nemmeno i mobilespotevano ottenere. Tutto è accompagnato dalle musiche registrate di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna.

Questo spettacolo – che dovrebbe essere definito storico, se questo aggettivo non evocasse qualcosa di monumentale e invecchiato, ovvero il contrario esatto di quel che si è visto – è stato ripreso già nel 1977 e nel 1983. Ora non ci sono più Calder e nemmeno Giovanni Carandente, che contribuì attivamente alla sua ideazione, eppure grazie alle foto, ai filmati e ai ricordi precisissimi di Filippo Crivelli, che ne curò allora la realizzazione scenica, si è potuto riprodurlo in modo assolutamente fedele. Il suo titolo è Work in progress, ma in realtà è uno spettacolo che non dà affatto quell’impressione di incompiutezza insita in quella definizione allora di moda, ma al contrario potrebbe essere definito classico per la sua compiutezza, la sua misura, il suo equilibrio, la sua ricerca di bellezza.

Forse questo titolo sarebbe stato più adatto al secondo spettacolo della serata – rappresentato a Roma in prima assoluta – che è stato commissionato dall’Opera ad un grande artista di oggi, il sudafricano William Kentridge, i cui lavori soffrono come quelli di Calder nei musei. Anche per lui l’arte non è qualcosa di fisso, eterno e fuori dal tempo: per darne un’idea, a Roma ha dipinto sugli argini del Tevere un murale lungo duecento metri, destinato a svanire col passare del tempo grazie all’azione dell’acqua, e all’Opera aveva già portato la sua regia di Lulu. Questa volta ha portato sul palcoscenico del Costanzi uno spettacolo interamente suo, che è stato interamente ideato da lui e di cui ha personalmente realizzato la regia, la scenografia e i testi, presi da fonti disparate, come vecchi proverbi e versi di poeti del mondo intero, ma modificati e adattati da lui stesso. 

Il titolo Waiting for the Sibyl  si riferisce alla Sibilla Cumana, che dava i propri oracoli con brevi frasi enigmatiche scritte su foglie d’albero che venivano rimescolate dal vento, cosicché il destino di ognuno era scritto ma nessuno poteva sapere quale fosse la “sua” foglia. Questa volta le frasi sono invece proiettate sul fondale, sovrapposte a immagini di vecchi libri, di buste di lettere, di registri commerciali, su cui Kentridge ha tracciato i suoi tipici disegni dai tratti neri, spessi e rudi. Sono risposte alle domande (ma sembrano esse stesse domande) fondamentali della vita, a quelle domande che tutti ci poniamo su quello che ci aspettiamo dalla vita e - man mano che ci si avvicina alla fine dei quarantacinque minuti dello spettacolo - su quale sia il bilancio finale della vita. Una per tutte, che mi è rimasta particolarmente impressa: “Non vedrò mai quella città”, che riassume la brevità della vita, il suo scorrere troppo rapido, le sue delusioni, la sua incompiutezza. In pratica, come dice Kentridge stesso, la domanda è in fondo una sola: “A che scopo?”. 

Per dare un senso di vita e calore umano alle proiezioni, Kentridge, nonostante la commissione prevedesse che la musica fosse registrata, ha voluto in scena un gruppo di artisti sudafricani, cantanti-attori e danzatori. Una danzatrice dalla carica magnetica impersona la sibilla, mentre le voci – in parallelo con l’evolversi dei testi - iniziano con una specie di recitar cantando in una per noi incomprensibile lingua africana e finiscono con canti più dolci e nostalgici.

Difficile descrivere o anche solo dare un’idea non troppo approssimativa di questo spettacolo, che dà l’impressione di restare “aperto” e non totalmente compiuto: ma questo è parte integrante del suo significato e della sua suggestione, cosa infatti c’è di più aperto del destino e di più incompiuto della vita? Al pubblico questo significato è arrivato. Se gli applausi sono stati particolarmente vivaci e – direi – gioiosi per Calder, non sono infatti mancati neanche per Kentridge.

 

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