ChamoiSic XII, da Antonio Rezza a Vladislav Delay
Il racconto dell'edizione 2021 del festival valdostano di Chamois, diretto da Giorgio Li Calzi
La XII esima edizione di ChamoiSic – Altra musica in alta quota, rassegna musicale (e non) diretta dal musicista torinese Giorgio Li Calzi e organizzata dall’Associazione Culturale Fonosintesi in collaborazione con il Comune di Chamois, ancora una volta non ha tradito le attese, confermandosi manifestazione aperta alla sperimentazione, alla fertile commistione tra più linguaggi e suoni differenti, e non da ultimo alla valorizzazione delle nuove generazioni di musicisti.
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Al netto dell’ampio ventaglio di concerti e appuntamenti che ormai da qualche anno seguono ed accompagnano (nella Vallée e non solo) le giornate centrali di ChamoiSic, organizzate nel piccolo caratteristico villaggio della Valtournenche, sito a 1.800 metri di quota e raggiungibile solo attraverso la funivia – concerti che hanno visto, tra gli altri, la partecipazione di artisti del calibro di Frankie Hi-nrg, Manuel Zigante, Louis Sclavis, del progetto LinguaMadre (Elsa Martin, Duo Bottasso, Davide Ambrogio) in live dedicato al Canzoniere di Pasolini, dei “giocolieri” del theremin Vincenzo Vasi e Valeria Sturba, e ancora dei fratelli valdostani Rémy e Vincent Boniface in una serata letteraria dedicata alla storica figura dell’abate Aimé Gorret, con ospite speciale lo scrittore e giornalista “cantore” di montagna Enrico Camanni –, quella di quest’anno, a causa dell’infausta emergenza Covid, ha finito per essere un’edizione un po’ più ridotta del solito (con due giornate invece di tre), ma certo non meno intensa e stimolante.
Ad aprire le danze, nella giornata di sabato 31 luglio, ci ha pensato la suggestiva elettronica del blasonato (specie nel proprio ambito) finlandese Sasu Ripatti, nome d’arte Vladislav Delay, vero e proprio architetto di un nordico immaginifico avvolgente soundscape, non privo di più ritmiche calorose inflessioni di matrice jamaicana, ispirato all’ambient music, al dub per l’appunto, al glitch (o “errore informatico” e sua accorta replicazione), alla musica house, costruito su una progressiva echeggiante stratificazione di frastagliati e interferiti suoni sintetici, ora più roboanti, industriali e “motorizzati”, ora più naturalistici, vaporosi e volatili, elaborati attraverso una sofisticata ed elegante combinazione di una campionata tecnologia analogica dal carattere “antico” interfacciata ad una più discreta avveniristica, oltre che avventurosa, più o meno preordinata, impalcatura sonica digitale.
Un Delay singolarmente succeduto dalla geniale straripante sapida tragicomica teatralità, intrisa di satira e critica sociale, del novarese di nascita Antonio Rezza, Leone d’Oro alla carriera alla biennale di Venezia del 2018, che a Chamois ha ridato vita (aggiornandolo) al suo storico avanguardistico spettacolo del 1995 Pitecus, realizzato in collaborazione con l’artista e scultrice (oltre che potremmo dire intagliatrice di variopinti tessuti dalle fogge più improbabili) Flavia Mastrella, caratterizzato da uno straordinario magistrale lavoro compiuto sulla mimica facciale e corporea e sull’incessante plastica modulazione di una voce policroma, in grado di veicolare mirabilmente la personalità inconcludente di una pletora di sconclusionati ed idiosincratici personaggi (veri e propri sapiens/demens avrebbe detto Edgar Morin), come irrimediabilmente perduti nel nostro spazio tempo o eterno astorico ed acritico presente.
Domenica 1° agosto, invece, è stata la volta della commemorativa ed emozionante musica sinfonica della giovane Orchestra d’Archi del Conservatoire di Aosta. Una formazione oltremodo nutrita, apprezzabilmente diretta, in modo semplice, privo d’enfasi, e però efficace ed autorevole, dalla giovane e preparata direttrice valdostana Stephanie Praduroux.
Un ensemble decisamente affiatato ed ispirato, guidato dal primo violino Fabrizio Pavone, che a Chamois ha interpretato egregiamente, su espressa commissione del festival e di Giorgio Li Calzi, alcune storiche commoventi opere (tra cui Summa, Fratres, Cantus in Memoriam) del grande compositore estone Arvo Pärt, dedicate all’indimenticato compositore e direttore d’orchestra britannico Benjamin Britten (1913-1976).
Un’occasione unica per confrontare l’inconfondibile stile – ieratico evocativo minimale tintinnabulare – dell’empatico e mistico compositore estone con l’ampia profonda (potremmo dire “mahleriana”) idea di musica di Benjamin Britten, atipico musicista e autore inglese, appassionato di musica per archi, che nel corso della sua smagliante, in patria spesso controversa, vicenda artistica ha saputo riarticolare le più svariate forme della “classicità” attraverso una meditata, personale prospettiva novecentesca.
Un concerto, quello della concordante orchestra d’archi valdostana, immediatamente seguito da una travolgente, pindarica (per l’incredibile salto di carattere estetico/stilistico), performance del sulfureo Voodoo Sound Club, formazione nata a Bologna nell’ormai lontano 2007 da un’idea del generoso, oltre che talentuoso, sassofonista Guglielmo Pagnozzi, davvero eccezionale a conduzione e sax soprano (liebmaniano, shorteriano, e prima ancora e soprattutto coltraneiano).
Fortemente influenzato dal jazz elettrico di Davis, dall'afro beat nigeriano, dalle infinite digressioni di Coltrane, e dal funk nervoso e scattante di James Brown, Pagnozzi ed i suoi valorosi musicisti – gli ottimi Davide Angelica (chitarra elettrica), Alessandro Altarocca (tastiere), Salvatore Lauriola (basso), Gaetano Alfonsi (batteria) e Danilo Mineo (percussioni) – hanno saputo sciorinare una certosina formula, intessuta di incendiario groove e incontenibile ritmicità, dall’ipnotico andamento: un vero e proprio incessante, adrenalinico ed al contempo concettuale, flusso sonoro, che ha incollato gli spettatori alla propria postazione.
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