Calaf folgorato da un robot

Spettacolo caratterizzato da intenzioni registiche e scenografiche costellate di elementi simbolici. Ma prevale in definitiva una spettacolarità tipicamente areniana, molto colorata e popolata. Direzione d'orchestra non particolarmente incisiva. Convincenti le prestazioni di Cura (Calaf) e della Carosi (Liù), tenuta vocale non sempre controllata della Casolla in Turandot. Buona la resa del coro.

Recensione
classica
Ente Lirico Arena di Verona Verona
Giacomo Puccini
21 Giugno 2003
Una grande palla occupa, centrale, tutto il grande palco dell'Arena, veicolo di una serie di evocazioni simboliche: la figura sferica è l'escamotage scenografico che in questa Turandot domina e incombe per tutta la durata dell'opera, sacrificando in parte la dimensione della profondità e costringendo le masse e i protagonisti a ruotare intorno ad essa, con un'azione che si proietta quasi esclusivamente sul proscenio. Una sfera cosparsa di decorazioni simboliche esoteriche, su cui di volta in volta si proiettano figure e luci, diventa una palla incandescente, che quindi si apre per divenire la sede del trono di Altoum, o che, nel buio della notte, è un pianeta costellato di lumini. L'intenzione del tandem russo, Alexandrov-Okunev, per la regia e la scenografia, è quella di far risaltare tutta una serie di elementi simbolici. Due 'isole' sulla scena sono un sipario su cui svolgono dei mimi delle vicende più funeste. Al posto di Turandot in carne ed ossa al primo atto viene trascinato sul palco una specie di robot, dal cui occhio irrompe un fascio di luce. E' ancora da alcune palle che si schiudono i simboli delle soluzioni degli enigmi: la speranza è una colomba che vola via, il sangue un drappo rosso, "Turandot" una sorta di bolla di sapone; così assieme a Liù, anche Timur viene fatto morire, per allontanarsi assieme alla fedele schiava, salendo una scala, mentre guardano portar via i manichini dei loro corpi. Ma il tentativo di caratterizzare questa Turandot con un'impronta concettuale resta per lo più sullo sfondo: è ancora lo spettacolo tipicamente areniano a prevalere e a sommergere il tutto, con un già visto di siparietti, draghi e spettacoli circensi: buono il ritmo e il lavoro sul movimento delle masse che dà all'allestimento un'impronta di grande spettacolarità. La direzione di Alain Lombard, che ha sostituito l'annunciato Aldo Ceccato, ci è parsa non sufficientemente incisiva a caratterizzare i colori orchestrali e quegli improvvisi cambiamenti ritmici e di movimento di cui è costellata la partitura pucciniana; l'impronta della bacchetta francese ci è parsa volersi caratterizzare nel segno di una troppo misurata omogeneità senza indulgere ad espansioni e trasporti sentimentali. Un José Cura in ottima forma si è imposto fin dall'inizio con una vocalità ampia e robusta, ricca di accenti: notevole e applauditissimo il suo "Nessun dorma", con ripetute ma non esaudite richieste di bis dalle gradinate. Pregevole la Liù di Michela Carosi che ha messo in evidenza finezze coloristiche e vocali di forte carica emotiva. Giovanna Casolla ha interpretato Turandot con incisività e potenza anche se la tenuta non sempre è stata controllata, assolutamente inintelligibile la pronuncia. Vivace e convincente anche sul piano della presenza scenica la prova di Marco Camastra, Iorio Zennaro e Gianluca Floris nel ruolo di Ping, Pong e Pang. Robusta e compatta, per colore vocale, la prova del coro areniano, ben istruito da Marco Faelli. Anfiteatro affollato anche se non al completo, con un pubblico che ha generosamente applaudito a scena aperta le scene e le arie più famose.

Interpreti: José Cura, Michela Carosi, Giovanna Casolla, Marco Camastra, Iorio Zennaro, Gianluca Floris

Regia: Yuri Alexandrov

Scene: Okunev

Orchestra: Orchestra dell'Arena di Verona

Direttore: Alain Lombard

Coro: Coro dell'Arena di Verona

Maestro Coro: Marco Faelli

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