Beethoven e Takemitsu a Berlino

Alla Konzerthaus Ivan Fischer dirige la Nona Sinfonia preceduta da Family Tree del compositore giapponese

Ivan Fischer
Ivan Fischer
Recensione
classica
Konzerthaus, Berlino
Ivan Fischer
29 Aprile 2018

Per entrare nella Konzerthaus, bisogna salire una monumentale scalinata e passare sotto sei colossali colonne ioniche sormontate da un timpano, come se si entrasse in un tempio dell’arte per assistere ad un rito, tanto più che è in programma quel monumento sublime della civiltà europea che è la Nona Sinfonia di Beethoven, composta proprio negli stessi anni in cui Schinkel costruiva la Konzerthaus, nata come teatro di prosa e poi trasformata in sala da concerto. Ma, come vedremo, è soltanto l’impressione di un neofita, perché poi le cose vanno diversamente.

Suona la Konzerthausorchester, erede della Berliner Sinfonie-Orchester, che ai tempi della DDR era la miglior orchestra sinfonica di Berlino est. Ora è una delle varie orchestre berlinesi, non la migliore, ma pur sempre una solida orchestra tedesca, compatta e granitica, con una tavolozza timbrica non ricchissima e con dinamiche non estreme, al cui interno si nota una certa preferenza per il forte. Insomma un’orchestra tedesca “all’antica”, come sono tuttora, nonostante i tanti cambiamenti degli ultimi decenni, le orchestre della Germania orientale. Ne è direttore principale Ivan Fischer, che ha la capacità di dividersi tra quest’orchestra e una molto diversa, la Budapest Festival Orchestra, da lui creata dal nulla, che è virtuosistica, brillante, ricca di colori e di dinamiche, capace di cambiar pelle ad ogni pezzo che suona. 

Ma restiamo a Berlino… Per la Nona Sinfonia Fischer ha scelto un organico piuttosto ridotto, seppure non così ridotto come ai tempi di Beethoven, con la curiosa particolarità dei timpani piazzati in prima fila, proprio sotto il podio. La sonorità, aiutata anche dall’ottima acustica della sala ottocentesca, è comunque piena e molto presente, tanto che l’ascoltatore ha quasi la sensazione di stare al centro dell’orchestra. Tuttavia tale organico, unito alle scelte interpretative di Fischer, attenua la grandiosità e la drammaticità della Nona, a cominciare dalla transizione dal caos primigenio dell’introduzione al ciclopico tema principale del primo movimento. Solo progressivamente il disegno del direttore diventa chiaro: togliere alla Nona quell’aura di capolavoro sublime, di monumento marmoreo, che tiene a distanza noi uomini comuni, ammessi soltanto ad ammirarlo con deferenza e compunzione. La Nona torna così ad essere la voce di un uomo che parla ad altri uomini, suoi fratelli ed amici, come dicono chiaramente i versi di Schiller, e non un messaggio profetico che cali dall’iperuranio sui mortali.

Ecco dunque che lo Scherzo ha il ritmo marcato e gli accenti pesanti di una festa popolare (forse gli stessi contadini della Pastorale?). L’Adagio molto e cantabile si svolge come un Lied, le cui tre strofe sono affidate ai teneri dialoghi degli strumentini – ottime le prime parti dell’orchestra – e riacquistano quel semplice carattere serenamente bucolico che all’epoca era inscindibilmente legato a questo tipo di scrittura. Ma è nel finale che la chiave interpretativa di Fischer diventa totalmente evidente. Il basso Hanno Muller-Brachmann intona “O Freunde” con voce chiara e cordiale, senza quella grandiosità imperiosa e perfino un po’ minacciosa di certi bassi dalla voce più scura e imponente. E l’Ode alla gioia di Schiller è intonata a un tempo più veloce del consueto, con una leggerezza gioiosa che cresce gradualmente fino a toccare un vertice bacchico di gioia sfrenata, non un sentimento ineffabile ma una gioia assolutamente umana, terrena e concreta. Andava in questa stessa direzione il coup de théâtre consistente nello sparpagliare tra il pubblico i membri del Coro della Filarmonica di Stato di Transilvania di Cluj-Napoca, mettendo così gli ascoltatori gomito a gomito con gli esecutori e facendoli sentire protagonisti tra gli altri protagonisti, come se anch’essi fossero chiamati a cantare “Freude, schöner Gotterfunken” e “Seid umschlungen, Millionen”: si può essere certi che molti lo facevano, mentalmente. Lo si può anche giudicare un espediente, ma di sicuro raggiungeva il suo scopo, anche a giudicare dall’entusiasmo del pubblico.

Resta da capire se con tali operazioni sia più quel che si acquista o quel che si perde, perché l’aura che circonda tali immensi capolavori ne è ormai parte integrante, è qualcosa di cui si sono arricchiti attraverso le generazioni, fino a diventare le pietre fondanti della nostra civiltà. Ma d’altra parte tornare – ma è veramente possibile o è soltanto un’ingenua speranza? - ad ascoltare ogni tanto la Nona con la spontaneità e la meraviglia dei primi ascoltatori potrebbe aiutarne a riscoprirne la novità e la vitalità originarie.

Beethoven si è inevitabilmente preso quasi tutto lo spazio, ma non si può ignorare il brano che apriva il concerto, Family Tree, scritto nel 1992 da Toru Takemitsu su commissione della New York Philharmonic. Il grande compositore giapponese ha messo in musica sei poesie per l’infanzia di Shuntaru Tanikawa, che colgono con semplicità ma anche con acuta sensibilità le impressioni di un bambino che si affaccia al mondo. Nelle parole, affidate ad una voce recitante, scorrono immagini e sensazioni: la luce del sole, i giochi, i nonni, i genitori, il cane… L’orchestra, dalle dimensioni quasi mahleriane ma estremamente delicata, si muove sempre tra il piano e il mezzopiano, con timbri leggeri, chiari e limpidi, creando un’atmosfera proustiana di ricerca del tempo passato, con uno stupore infantile per tutto quel che accade, passa e finisce per sempre. Nostalgia pura, senza sentimentalismi. Una musica di grande poesia e assoluta bellezza, come altre che Takemitsu ci ha regalato. 

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