Ecco a voi l'Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp

Il leader Vincent Bertholet racconta uno dei gruppi più strani in circolazione, in attesa di sentirli a Jazz Is Dead

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Foto di Emilie Pelissier
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Il ricco programma di Jazz Is Dead 2025 vedrà esibirsi a Torino, tra i tanti, uno dei gruppi più originali e inclassificabili di questi anni: l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp (accadrà domenica 1° giugno, sul tardi). 

– Leggi anche: Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, onnipotenza dadaista

Chi la vide allo Spazio 211 o a Novara Jazz un paio di anni fa (ne parlammo qui e qui) sicuramente non vorrà perdersi il concerto dell'esuberante e frenetico ensemble ginevrino (attualmente sono 12 le persone sul palco: ma la formazione ha avuto nel tempo un numero di musicisti variabile) guidato da Vincent Bertholet

Per capirne un po’ di più, lo abbiamo intervistato, chiedendogli origine e caratteristiche di una band che, per poco sia conosciuta dalle nostre parti, vanta comunque già una carriera di quasi 20 anni.

Quando hai fatto nascere il gruppo, pensavi già a una band con un numero così alto di musicisti, o si è formata così un po’ per caso?

«Assolutamente sì, è quello che ho sempre voluto. Qualche anno prima, nel 2002, avevo visto gli Homelife, un gruppo di Manchester, nel quale avevo un amico, Richard Harrison, che suonava la batteria. Erano in 16 sul palco, e suonavano una specie di trance elettronica con moltissimi strumenti. Fu uno choc assoluto; mi sono sempre detto che avrei voluto allestire un gruppo di quella portata».

«Quando, nel 2006, la Cave 12 mi ha dato carta bianca [Cave 12 è un locale di Ginevra che aveva emesso un bando per la formazione di una band underground da mandare in tour in Europa, ndr], avevo questa idea in mente. Ma non avevo mai formato un gruppo, mai mi era successo di chiedere a chiunque di suonare la musica che avevo in testa. Allora mi sono fermato alla formula del sestetto. Anche perché, siccome avevo già idea di fare dei tour, avevo solamente 6 posti nel furgone che possedevo ai tempi».

«Ma questo concetto della grossa band rimaneva ben saldo. Ho aspettato fino al festeggiamento dei 10 anni del gruppo, nel 2016, per creare questa formazione allargata, in cui c’erano membri nuovi e membri storici; ecco perché ci sono 2 chitarre, 2 marimba, 2 fiati. Inoltre avevo molta più fiducia in me stesso nel ruolo di leader. La novità era la sezione di archi. Siamo stati in 14 fino al 2020, poi 12 dal 2021».

Essere in un gruppo di 12 persone è molto più complicato che essere 4 o 5, come ve la cavate? Anche da un punto di vista strettamente pratico…

«Guarda, dal mio punto di vista è appena più complicato. Ci vuole appena un po’ di tempo in più ad aggiungere tutti gli indirizzi nelle mail. Ma il messaggio è lo stesso. Quando siamo passati alla formazione in 14, quindi dopo 10 anni di tournée, mi sono completamente assunto il ruolo di compositore del gruppo. Prima portavo tutte le idee musicali, più o meno definite, nel sestetto, e lasciavo molto più spazio a ciascun musicista per appropriarsene. Quindi c’erano molte più discussioni, molto dibattito. E anche se ero io ad avere l’ultima parola, trovavo il tutto assai laborioso, e dovevo fare molti compromessi».

«Quando siamo diventati 14, sono arrivato con degli spartiti, e ho deciso di fare meno compromessi (è d’altronde per quello che c’è stato un po’ di andirivieni nella band). Quindi per me è meno complicato, i miei desideri di compositore si realizzano completamente. E ogni nuovo arrivato conosce le regole del gioco, è chiaro fin dagli inizi».

«Ognuno di noi assume il ruolo di tour manager (bisogna gestire il branco!) ogni 5 date, siamo abbastanza disciplinati perché conosciamo la nostra inerzia». 

«Nella pratica, abbiamo 2 furgoni da 7 posti, ognuno con strumenti e materiale. Ognuno di noi assume il ruolo di tour manager (bisogna gestire il branco!) ogni 5 date, siamo abbastanza disciplinati perché conosciamo la nostra inerzia. Il problema principale è per gli organizzatori, alloggiare 14 persone (12 musicisti più 2 tecnici) non è sempre facile».

Da queste parti non abbiamo conoscenza di molti gruppi svizzeri, com’è la realtà? C’è una scena a Ginevra oppure siete un’anomalia anche rispetto al panorama locale?

«Ti dirò, in Svizzera è pieno di gruppi fantastici: Omni Selassi, Sun Cousto, Leopardo, Autobahns, Elvis Aloys,  Disco Doom, Coilguns… e a Ginevra Maraudeur, Tout Bleu, Citron Citron, Ondanaconda, Cyril Cyril, Tresque, La Tène, Leoni Leoni, Bound by Endogami, L’Eclair… Personalmente suono anche nel duo Hyperculte, a maggio saremo in Italia…».

«Noi siamo sicuramente il gruppo più numeroso, ma non credo che siamo anche quello che fa più tour. La scena ginevrina è molto dinamica ed eclettica. Molti gruppi si sono stabiliti a Ginevra da parecchi anni, c’era una grossa scena alternativa e la sua influenza si sente ancor oggi».

Sicuramente molti giornalisti avranno già detto che non è affatto facile trovare dei termini di paragone per la musica dell’Orchestre, o meglio, ce ne sarebbero fin troppi. Per questo sono curioso di sapere quali sono i tuoi modelli di riferimento, anche nomi specifici…

«Come già detto gli Homelife, che hanno pubblicato alcuni album su Ninja Tune, mi hanno messo voglia di creare il gruppo. In precedenza, i Dog Faced Hermans mi hanno cambiato la vita, mostrandomi che si può essere punk e contemporaneamente aperti alle musiche etniche, al jazz, al pop… Naturalmente gli Ex, che sono il gruppo che ho visto più volte dal vivo, e che mi hanno fortemente influenzato, aprendomi all’ascolto di un mucchio di musiche diverse. Fela Kuti, per il grande numero di musicisti impiegati, mi ha mostrato quanto sia importante rimanere minimali, e che ciascuno, fosse solo per aver suonato un piccolissimo riff, ha un’importanza essenziale per il groove finale. E che ognuno deve mettersi al servizio dell’insieme (questa è anche un’influenza della contrabbassista Joëlle Léandre)».

«Fela Kuti, per il grande numero di musicisti impiegati, mi ha mostrato quanto sia importante rimanere minimali, e che ciascuno, fosse solo per aver suonato un piccolissimo riff, ha un’importanza essenziale per il groove finale». 

Qual è il trucco per integrare tutti questi suoni in un mix coerente e funzionale?

«Questo non lo so. Scrivo la musica che viene come viene – e parlo della sola musica, i testi sono opera dei cantanti. Non mi dico mai toh, adesso provo a incorporare questo o quello…».

Qual è invece l’influenza di Marcel Duchamp nella vostra musica?

«Non sono sicuro che ci sia un’influenza nella musica. Inizialmente, il suo nome è comparso perché Séni, primo trombonista del gruppo, faceva parte di Klat, un collettivo di arte contemporanea di Ginevra, ed era un suo grande fan. È lui che ha voluto introdurre Marcel Duchamp nella nostra storia. Io lo conoscevo appena, per cui ho fatto delle ricerche. E quello che posso dire oggi è che da lui abbiamo preso il rifiuto delle etichette, la voglia di fare le cose senza prendersi sul serio, di provarci senza curarci troppo di rispettare le convenzioni».

Avete già 6 album completi a nome dell’Orchestre. Mi piacerebbe avere una breve descrizione di ciascuno, in modo da capire come si è evoluta la vostra musica nel corso degli anni.

«Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: esistevamo da appena 6 mesi, sono arrivato con le mie composizioni ingenue. È più che altro un demo ma me ne assumo totalmente la responsabilità. Stavo realizzando un sogno registrando un disco con delle persone che suonavano la musica che avevo immaginato».

«The Thing That Everything Else is About: segna un punto di svolta. L’abbiamo imbastito in una settimana di prove, e registrato in 5 giorni. C’era stata una crisi nel gruppo poco tempo prima, e quindi ero a un bivio: o smettevo, o mantenevo il mio obiettivo, fissandolo subito in qualche modo. Amo molto i pezzi del disco, ma non è suonato molto bene né ben registrato. È nato nell’urgenza del momento».

«Rotorotor: è stata la prima volta che ci siamo dotati dei mezzi per preparare un disco per bene, di passare del tempo in studio con un produttore, John Parish. Questo disco ci ha aperto delle porte. E segna anche la fine di un primo ciclo. Non avevo più nulla da dire in sestetto, dopo questo episodio».

«Sauvages formes: il primo disco nel quale ho veramente composto quasi tutto. Però trovo che la scrittura sia a tratti un po’ maldestra, è un album troppo chiacchierone, troppo complicato».

«We’re OK. But We’re Lost Anyway: registrazione durante il lockdown. Non avevo voglia di aspettare, per cui ho dovuto invitare musicisti locali e smettere di lavorare con i nostri amici inglesi. Credo di essere andato più diretto all’essenziale; è un disco più crudo, più giusto».

«Ventre unique: la squadra si stabilizza. È la prima volta che ho potuto permettermi di fare solo musica nella vita, per cui ho passato del tempo concentrandomi sulla scrittura, in particolare con due soggiorni ad Amburgo e a Napoli. Ho operato anche un cambiamento nel mio modo di comporre, lavorando fin dall’inizio con un computer (prima partivo da loop fatti col contrabbasso)».

Non ci resta che ripassare e aspettare il concerto di fine mese!

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