Tim Hecker, un canadese a Tokyo

Konoyo è il nuovo capolavoro del produttore avant-garde, che ricombina materiali musicali registrati in un tempio giapponese

Tim Hecker, Konoyo
Disco
pop
Tim Hecker
Konoyo
Kranky
2018

Ormai da alcuni anni il procedimento utilizzato dal canadese Tim Hecker per produrre i propri lavori si è stabilizzato. In genere impiega come materie prime fonti “naturali”: un organo a canne da lui stesso suonato dentro una chiesa islandese (Ravedeath, 1972 del 2011), le esecuzioni di un ensemble orchestrale neoclassico (in Virgins, 2013) o un coro impegnato a far rivivere le partiture dell’autore franco fiammingo di epoca rinascimentale Josquin des Prez (nel precedente Love Streams, datato 2016).

Ogni volta i risultati vengono filtrati poi attraverso circuiti digitali, scomponendoli, deformandoli e trasfigurandoli, sino a renderli pressoché irriconoscibili. Così è pure nel nuovo album, la cui intestazione in giapponese – con vocabolo traducibile in “questo mondo”, Konoyo – dichiara la provenienza delle risorse originarie, create in un tempio nei dintorni della capitale dai componenti del Tokyo Gakuso, gruppo che da decenni perpetua la tradizione millenaria del gagaku, la musica delle corti imperiali in passato già motivo di suggestione per compositori quali La Monte Young e Olivier Messiaen.

All’ascolto, se ne coglie l’eco qui e là durante lo scorrere del disco, in particolare nel bordone d’archi percepibile verso l’epilogo dell’imponente “In Mother Earth Phase”, oppure negli arpeggi esotici da cui prende il via la conclusiva “Across to Anoyo”, che dopo un tour de force lungo oltre un quarto d’ora termina – chiudendo il cerchio – su accordi analoghi a quelli posti in apertura dell’iniziale “This Life”, dove gli accenti acuti dei medesimi strumenti – trattati tecnologicamente – sembrano grida di gabbiani meccanici.

Al solito l’effetto è una sorta di vertigine emotiva, causata dall’alternanza di turbamento e beatitudine, fra turbini da musique concrète ed elegiache fughe ambient. Esemplari sono in quel senso “In Death Valley” e “Keyed Out”, fra gli apici di un’opera che va tuttavia considerata nell’insieme, essendo flusso sonoro senza soluzione di continuità.

Meno claustrofobico e maggiormente organico rispetto ai predecessori, Konoyo aggiunge un tassello prezioso al mosaico espressivo di Hecker, riaffermandone lo status di artista annoverato a ragione nell’aristocrazia dell’avant-garde contemporanea.

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