Viaggiando per l'Italia di Lomax (e della radio)

Maurizio Agamennone riflette sul "viaggio di conoscenza" nell'Italia degli anni Cinquanta in Viaggiando, per onde su onde (Squilibri)

Diego Carpitella - Alan Lomax - Squilibri
Diego Carpitella fotografato da Alan Lomax nel 1954 (foto da Musica e tradizione orale nel Salento, Squilibri 2017)
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Nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale al boom economico la Penisola italiana è percorsa da nord a sud da numerosi viaggiatori "culturali", protagonisti di un grand tour molto diverso da quello dei decenni precedenti. Studiosi, giornalisti, intellettuali di fatto reinventano, in questi anni, una nuova geografia nazionale: istituiscono nuove connessioni tra italiane e italiani e, nel farlo, riportano alla luce una mappa fatta di musiche, pratiche, consuetudini e credenze rimasta celata allo sguardo, e all'orecchio, di (quasi) tutti fino a quel momento.

Viaggiando, per onde su onde (Squilibri) di Maurizio Agamennone – sottotitolo: Il viaggio di conoscenza, la radiofonia e le tradizioni musicali locali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960) – parte proprio dal più famoso di questi viaggi, ovvero quello di Alan Lomax insieme a Diego Carpitella, nel 1954. È un viaggio, quello dei due studiosi, che tanto è stato studiato dall'etnomusicologia italiana (per cui rappresenta una sorta di atto fondativo) quanto spesso è stato mitizzato, anche acriticamente, in molte narrazioni sul folk italiano, fino ad aver assunto connotati quasi epici (che pure – a ripercorrerlo oggi – non gli sono certo estranei).

Di Lomax e Carpitella Agamennone – che insegna etnomusicologia all'Università di Firenze – si è già occupato ampiamente in passato. Questo libro anzi, come lo stesso studioso dichiara in apertura, «si è composto quasi da solo» proprio nel corso della ricerca per Musica e tradizione orale nel Salento. Le registrazioni di Alan Lomax e Diego Carpitella (agosto 1954), pubblicato nel 2017 da Squilibri, da cui sono tratte le foto scattate da Lomax che illustrano questo articolo (a sua volta, quel libro era il "cugino" di un altro volume curato da Agamennone e dedicato alle ricerche di de Martino insieme a Carpitella, anche quello per la sempre attivissima Squilibri).

Questa volta, però – ed è la maggiore originalità di Viaggiando, per onde su onde – il viaggio di Lomax è solo un punto di partenza per incrociare altre traiettorie – da Italo Calvino a Pier Paolo Pasolini, da Guido Piovene allo stesso de Martino. E, soprattutto, per allargare lo spettro di osservazione (e di ascolto) su un decennio decisivo per la cultura italiana, in cui si sono ricomposte – sebbene in maniera imperfetta – fratture, accorciate distanze, nel segno del "nuovo" medium radiofonico. Una nuova Italia, un'altra Italia immaginata attraverso la radio.

Abbiamo colto l’occasione dell'uscita di Viaggiando, per onde su onde per fare qualche domanda a Maurizio Agamennone.

Nel libro grande spazio è dato alla campagna di registrazione di Alan Lomax con Diego Carpitella, che viene messa in relazione con altri “viaggi di conoscenza” che attraversano l’Italia nello stesso periodo. Mi sembra una scelta azzeccata, perché restituisce una lettura più complessa – e forse più “laica” – di Lomax, che è talvolta raccontato (e forse si è raccontato) come il “cacciatore di suoni” venuto da un altro mondo che piomba su di un pianeta sconosciuto ai suoi stessi abitanti. È così? Quanto quel viaggio rappresenta un’anomalia irripetibile, e quanto è figlio di una nuova sensibilità culturale che stava maturando in quegli anni, anche in Italia?

«Mi pare che si possa concordare sulla percezione della personalità di Alan Lomax come quella di un grande entusiasta, curioso e dialogante, che attraverso le sue registrazioni riesce a mettere in primo piano durante i suoi viaggi europei – nel Regno Unito, in Spagna e in Italia – musiche e danze di grande originalità e bellezza, altrimenti poco conosciute o del tutto ignote. Perciò, si può riconoscere che Lomax sia stato effettivamente un pioniere». 

«Questa sua euforica intraprendenza si è incontrata favorevolmente con una nuova sensibilità che animava molte regioni dell’Europa post-bellica, nella prospettiva di cicatrizzare le profonde ferite della guerra e gli esiti della dittatura, riconoscere la vitalità delle “province”, e ricostruire o fondare ex novo rapporti più bilanciati tra il centro – i centri egemonici della politica, economia, impresa, accademia, cultura, eccetera – e le “periferie”, in passato sconosciute, lontanissime, abbandonate a se stesse, oppure  frequentate per organizzare un consenso locale da investire nelle capitali, per alimentare la coscrizione militare e altre operazioni di “prelievo” squilibratissimo».    

Il viaggio di Lomax e Carpitella è di certo uno dei momenti fondativi per la nascita di un’etnomusicologia in Italia, e un modello per molti versi problematico. Con tutto che – come scrive nel libro – «si fa presto a essere severi, sessanta o settant’anni dopo», che cosa è da salvare, e che cosa invece è necessario ripensare oggi di quell’approccio alle “tradizioni musicali”?

«Mi pare che le tracce di eventuali differenze di prospettiva critica siano rilevabili già nella diversa sensibilità di due tra i pionieri di allora, lo stesso Alan Lomax e Diego Carpitella. Il primo ne ha scritto e raccontato – subito a ridosso e ancora dopo – in termini di affettuosa stupefazione, preso da una sorta di “incantamento”: tutto è magnifico e straordinario, i cantori e strumentisti locali sono sempre disponibili e dialoganti, oltre che competenti, in alcuni casi si immagina addirittura una remota discendenza comune dagli antecedenti di quegli “informatori” locali, così come la collaborazione con le istituzioni italiane (RAI, Accademia Nazionale di Santa Cecilia – CNSMP) è assai favorevole ed efficace, salvo poi ridimensionare l’entusiasmo inziale quando l’incantamento iniziale comincia a declinare». 

«Carpitella, invece, soprattutto nella narrazione vicina a quel viaggio, ne parla in termini più “freddi”, più consapevole che con quella esperienza pionieristica, e con altre rilevazioni precedenti (ricordo quella con Ernesto de Martino, nell’autunno del 1952) sarebbe iniziato un lungo e faticoso processo di documentazione, interpretazione critica, analisi delle strutture musicali e delle pratiche performative, valutazione storico-culturale, che avrebbe richiesto tempo, risorse, quadri e istituzioni solidali». 

«Nei decenni successivi si è aggiunta una nuova consapevolezza: non poche pratiche musicali rilevate allora sono nel frattempo declinate e cadute in disuso; perciò, nel tempo, quelle registrazioni sonore sono divenute anche – forse, soprattutto – fonti di interesse storico: quindi, rappresentative di processi di comunicazione e produzione di senso, modi della sociabilità, relazioni di genere, pratiche performative che appartengono a comunità locali che si sono profondamente trasformate. Altro è che cosa poi ne possano trarre i musicisti (vocalisti, strumentisti, danzatori, compositori): ma così entriamo nel campo di prospettive e valutazioni di tipo estetico che pertengono alla qualità/originalità delle più diverse “scritture” musicali».  

Foto di Alan Lomax (da <i>Musica e tradizione orale nel Salento</i>, Squilibri 2017)
Una foto di Alan Lomax (da Musica e tradizione orale nel Salento, Squilibri 2017)

Un ruolo importante nel processo di conoscenza di questa Italia “altra” lo gioca anche la radio. Com’era la radio culturale degli anni Cinquanta? A chi parlava?

«Un altro aspetto veramente sorprendente, e anche emozionante, della ricerca che ha condotto a questo mio volume è stata la progressiva consapevolezza di quanto sia stato importante il ruolo della radiofonia nel farsi di una documentazione adeguata e nell’emergere di presupposti veramente scientifici per l’indagine e interpretazione critica. Intanto, la dotazione tecnologica e il personale erano RAI (soprattutto radiofonia, in quegli anni: la televisione non c’era ancora o era neonata): microfoni, aste, registratori, nastri, accumulatori, automobili, tecnici. Il nuovo archivio sonoro italiano, il Centro Nazionale Studi di Musica Popolare, che nasce subito dopo la fine della guerra e la Liberazione, era anch’esso sostenuto dalla RAI, in collaborazione con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, i quadri dirigenti erano in comune tra i due Enti. Giorgio Nataletti – fine musicista, musicologo e “padre fondatore” di tutte queste vicende – era anche lui un “uomo RAI”». 

«Si auspicava che i diversi musicisti locali potessero sentire se stessi alla radio e ascoltare gli altri, così come gli abitanti della Lombardia potessero conoscere quali fossero le consuetudini dei siciliani e viceversa: si riteneva che fosse possibile mettere in comunicazione reciproca le diverse “periferie”».

«Pure, assai sorprendenti erano le connessioni dirette tra l’indagine sul terreno, la documentazione sonora e il palinsesto radiofonico: ciò che gli studiosi e i tecnici RAI fissavano sui nastri magnetici, nelle più diverse località della Penisola e delle Isole, “entrava” nella programmazione radiofonica quotidiana, per lunghi anni, soprattutto in una rete, il Terzo Programma, che nasce subito come canale “sperimentale” in modulazione di frequenza, con una spiccata vocazione culturale, similmente a quanto già realizzato pochi anni prima dal Third Programme della BBC. Perciò, si auspicava che i diversi musicisti locali potessero sentire se stessi alla radio e ascoltare gli altri, così come gli abitanti della Lombardia potessero conoscere quali fossero le consuetudini dei siciliani e viceversa: si riteneva che fosse possibile mettere in comunicazione reciproca le diverse “periferie”, nella prospettiva di alimentare una sensibilità nazionale sovra-ordinata, non più brutalmente centralistica ma consapevole e rispettosa delle numerose differenze locali. Certo, gli apparecchi a modulazione di frequenza costavano molto, e la diffusione del segnale era limitata ai grandi centri urbani: quindi, si può immaginare che molte comunità locali ne fossero parzialmente escluse, ma in ogni caso quelle voci e quelle musiche aleggiavano nell’etere e restavano nella percezione degli ascoltatori radiofonici, oltre che nel fare degli studiosi e intellettuali che vi agivano direttamente; e queste memorie ed esperienze arrivavano anche lontano, a colore che, forse, la radio nemmeno la possedevano. In più, quelle stesse tradizioni musicali locali erano regolarmente affiancate alla produzione dei grandi compositori europei e americani, alimentando un assetto di “pari dignità” fra musiche molto diverse».  

Allo stesso tempo quella radio conviveva con una radiofonia “di massa”, erede di quella fascista, che è poi quella che ha contribuito a costruire “la canzone italiana” così come la conosciamo, con tutti i limiti del caso. Quel Giulio Razzi che ascolta con interesse Lomax, e che contribuisce alla diffusione del “folklore musicale” sulla Rai, è lo stesso Razzi direttore dei programmi dell’Eiar, che appoggia l’esclusione dei musicisti afroamericani ed ebrei dopo le leggi razziali e che nel 1951 è tra i firmatari del regolamento del primo Festival di Sanremo. Come convivevano queste due diverse radio?

«Convivevano nella sensibilità e nelle politiche democristiane di allora, assolutamente dominanti nella radiofonia e poi nella televisione: il passato EIAR di non pochi dirigenti e operatori fu sostanzialmente dimenticato, e alla nuova RAI fu attribuita una nuova vocazione “pedagogica” che conduceva, comunque, alla veicolazione di una percezione favorevole del nuovo stato democratico, che tutelava anche le lingue minoritarie, favoriva la conoscenza reciproca delle diverse comunità locali, pur all’interno di una netta egemonia culturale d’impronta cattolica e a stretta conduzione politica democristiana, come s’è già detto. Che tuttavia, non escludevano giornalisti, operatori e studiosi di ben altra sensibilità politica, a cominciare da Ernesto de Martino, che pure fece molta radio – e anche questo forse risulterà sorprendente – nella prima metà dei Cinquanta del secolo scorso». 

Foto di Alan Lomax (da Musica e tradizione orale nel Salento, Squilibri 2017)
Foto di Alan Lomax (da Musica e tradizione orale nel Salento, Squilibri 2017)

Chiuderei con una riflessione, forse, più personale che mi sembra affiori nelle ultime righe del libro. Pur senza rimpianti per i bei tempi andati, a leggere del fermento culturale di quegli anni rimane l’impressione che a un certo punto qualcosa sia andato storto, nella musica che ascoltiamo, nella ricerca, nella divulgazione… È così?

«Non lo so… I tempi sono diversissimi. Nel quindicennio esaminato (1945-1960) c’era tutto da rifondare e ricostruire, con grandi speranze, pur tra moltissime difficoltà e carenze. Noi, oggi, siamo anche l’esito di quell’impegno e di quella generosità».

«Il mondo della ricerca e dell’università sono sotto attacco da numerosi anni, ormai, nel nostro Belpaese, ma cerchiamo di difenderci, resistere e contrattaccare… anche se non mi pare ci siano più certi grandi Maestri…»

«Quindi, nei decenni intercorsi si sono affermati altri media e processi di comunicazione che hanno pure modificato molto le procedure del “discorso pubblico” e della produzione di senso (personalmente, se sento ancora molta radio, non vedo quasi più la televisione: la trovo spesso noiosa, apodittica, e quasi mai emozionante). Poi, il mondo della ricerca e dell’università sono sotto attacco da numerosi anni, ormai, nel nostro Belpaese, ma cerchiamo di difenderci, resistere e contrattaccare… anche se non mi pare ci siano più certi grandi Maestri…».

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