Ripensare Morricone

Ennio di Tornatore e il libro Morricone, la musica, il cinema ci costringono a riflettere sull'eredità di uno dei grandi compositori del 900

Ennio Morricone Tornatore Sergio Miceli
Ennio (©2020 LUCKY RED)
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Non che servano particolari ragioni per parlare di Ennio Morricone, ma due recenti uscite hanno il merito di riportare l’attenzione sull’eredità artistica del compositore romano scomparso nel luglio del 2020, aprendo a nuove prospettive di riflessione su come valutiamo Morricone (e su come lui valutava se stesso).

La prima è Ennio, il documentario girato da Giuseppe Tornatore già vincitore del Nastro d’Argento, arrivato a metà febbraio nei cinema.

Ennio è un documentario-monstre di oltre 2 ore e mezza ed è – lo dico subito – bellissimo, a tratti commovente. Tornatore si è appoggiato a un format non particolarmente innovativo – il classico montaggio che alterna intervistati a mezzo busto a immagini di repertorio – ma vince facile grazie al ritmo che sa imprimere al film e alla qualità dei materiali, delle musiche (il best of di Morricone potrebbe tenere ben più di 150 minuti) e delle stesse voci coinvolte.

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Ce ne sono addirittura troppe, e a tratti inevitabilmente si ripetono. I registi fanno gara a dire quanto era geniale «Ennio» (ci sono Bernardo Bertolucci, Giuliano Montaldo, Marco Bellocchio, Dario Argento, i fratelli Taviani, lo stesso Tornatore, Roland Joffé, Oliver Stone, Quentin Tarantino, Clint Eastwood – nel ruolo di attore, in realtà –, Barry Levinson, Lina Wertmüller e altri ancora). I musicisti ribadiscono più e più volte quanto ne sono stati ispirati (tra i moltissimi ci sono sono Bruce Springsteen, James Hetfield dei Metallica, Mike Patton, Joan Baez, Miranda Martino, Dulce Pontes, Enrico Pieranunzi e un sempre superprotagonista Gianni Morandi). I compositori (Alessandro De Rosa, Boris Porena, Nicola PiovaniHans Zimmer...) ricordano quanto sia stato sottovalutato e – ancora – geniale e di ispirazione.

L’inevitabile abbuffata di agiografia è però ampiamente bilanciata dal pezzo forte. Ovvero il racconto in prima persona dello stesso Morricone, che si svela con generosità ed emozione lungo tutta la sua carriera, dagli esordi come «trombista» al Conservatorio passando per l’epoca Rai, il lavoro in Rca come arrangiatore di futuri classici della canzone italiana, il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, l’inizio delle collaborazioni cinematografiche e l’epoca dei grandi concerti come direttore d’orchestra delle proprie musiche. È in queste lunghe sezioni autobiografiche che Ennio riesce a fare una cosa che raramente i documentari musicali fanno, per quanto paradossale possa sembrare: a parlare veramente di musica.

Morricone indulge spesso, con l’occhio lucido di chi sa di essere geniale e gode nel fartelo capire, nella spiegazione delle idee dietro le sue composizioni. Sottolinea i passaggi con le mani – la macchina da presa è intelligente nel coglierne i gesti – mentre racconta “Se telefonando” e la giustapposizione fra la “quadratura” dell’arrangiamento e la struttura ternaria della melodia; si accende quando spiega le varianti sul nome di Bach nel Clan dei siciliani, o il contrappunto nei temi di Mission… Ne esce una toccante (e preziosa) lezione di pensiero musicale e di composizione.

Proprio da qui è interessante partire per riflettere sull’auto-narrazione che Morricone ha dato di sé negli ultimi anni di vita e sulla narrazione che gli altri hanno dato di lui. I registi lo dipingono come un compositore senza compromessi: gli aneddoti in cui Morricone respinge le richieste di copiare musica altrui, o di lavorare con una compilation soundtrack di canzoni sono numerosissimi («Che ci sto a fare qui», dice sempre «Ennio» alla fine, e se ne va sdegnato). Lui, al contrario, racconta spesso sorridendo delle concessioni fatte («Alla fine ho ceduto»), o di quanto una certa soluzione non lo soddisfacesse, ma il tempo fosse poco e dunque...

Quello che è stato con pochi dubbi il più importante compositore di musica da film del secondo Novecento ha cioè sempre trattato la composizione di musica da film alla stregua di un lavoro, con un’etica da travet – diremmo a Torino – e l’intima convinzione che si trattasse sempre e comunque di esiti di valore inferiore rispetto alla sua produzione “di ricerca”. Che la prima, cioè, fosse necessariamente e costituzionalmente meno della seconda, aderendo dunque a delle categorie ben salde nel pensiero musicale del Novecento. 

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Capita allora a proposito l’uscita per la collana Le Sfere di Ricordi/Lim di Morricone, la musica, il cinema di Sergio Miceli (576 pp., 35 euro), in una nuova edizione curata dal musicologo Maurizio Corbella.

Morricone, la musica, il cinema

Come ricorda lo stesso Corbella, «non si tratta di riscoprire un “classico” della letteratura saggistica». Il libro di Miceli era uscito nel 1994 e, per varie vicissitudini editoriali, era rapidamente sparito dalla circolazione.

Nonostante ciò, esso rappresenta la prima monografia critica su Ennio Morricone, l’unica (a oggi) a potersi fondare su spartiti autografi del compositore, e mantiene dunque intatta la sua importanza a distanza di quasi tre decenni. Nella lunga assenza dal dibattito, però, il campo dei film music studies è cresciuto e ha assunto una “rispettabilità” che prima gli era in buona parte negata dall’accademia. Di Morricone si sono occupati in moltissimi, anche al di là dell’Oceano, adottando prospettive diverse e – considerato l’oblio del libro di Miceli e la sua mancata traduzione in inglese – ampiamente indipendenti dalla strada dissodata dallo studioso toscano. La cui prospettiva, intanto, è stata superata dalla direzione del dibattito e dall’idea stessa di musicologia: se nel 1994 Morricone, la musica, il cinema era l’avanguardia di uno studio sulla musica da film che poteva (persino!) incorporare la popular music, oggi è – al netto della qualità dell’analisi e delle informazioni di prima mano – retroguardia.

Nella sua preziosa introduzione – una lucida lezione su come storicizzare le musicologie, particolarmente pregnante oggi nella fase di ristrutturazione di valori e categorie che stiamo (fortunatamente) vivendo – Maurizio Corbella non si fa (giustamente) problemi a segnalare alcune problematicità nelle categorie di Miceli: l’idea di una «doppia estetica» che separa le musiche funzionali (quelle per il cinema) e quella che Morricone chiamava “musica assoluta” (termine che Miceli però non usa mai); la persistenza, nell’impalcatura della costruzione critica, di gerarchie tra generi e pratiche musicali che inevitabilmente condiziona le conclusioni; in fondo, il problema stesso del “valore”, che è oggi difficilmente accettabile come punto di partenza per una ricerca.

Queste critiche risultano particolarmente pregnanti perché – e qui, mi pare, Corbella centra il bersaglio –, per quanto il libro di Miceli possa essere stato poco influente sul dibattito, è stato molto influente per Morricone. Morricone, la musica, il cinema allora è soprattutto «un prezioso testimone dell’iter creativo dello stesso Morricone, avendo fornito a quest’ultimo i presupposti teorici e le categorie ermeneutiche su cui egli avrebbe poi edificato la propria autorappresentazione pubblica nei due decenni successivi».

Sarebbe a dire che Morricone ha appreso molto su se stesso e sulla sua musica dal libro di Miceli – il quale, a sua volta, si è confrontato a lungo con Morricone durante la stesura.

L’esperienza di vedere il film di Tornatore in parallelo con la lettura del libro restituisce in effetti un affascinante gioco di specchi su Morricone e sulle sue idee sulla musica. Non è tanto interessante capire chi abbia influenzato chi, ma piuttosto calare il tutto in una visione d’insieme storica e culturale, in una specie di “storia delle idee sulla musica” che ha Morricone al centro. Nel film, una importante parte di riflessione su questo punto è affidata al compositore Boris Porena, che si fa portavoce di un certo atteggiamento del mondo accademico verso musiche ritenute costituzionalmente “inferiori”. Porena, che fu compagno di Morricone nella classe di composizione di Goffredo Petrassi, è lucido nel riconoscere oggi i limiti di certi atteggiamenti, e identifica nella visione di C’era una volta in America la sua personale epifania e conversione, che lo avrebbe spinto a inviare una lettera di scuse a Morricone. Morricone la accolse con sollievo e gioia.

Eppure, di queste critiche e di queste diffidenze il compositore fu vittima pur senza – in apparenza – mai rinunciare alla forma mentis dei suoi stessi “carnefici”. Morricone, cioè, non sembra aver mai veramente abbandonato l’idea che i suoi lavori “importanti” non fossero le colonne sonore, e che esistesse comunque una gerarchia tra il lavoro per il cinema e la pura sperimentazione fine a se stessa, tra un buon artigianato e l’Arte.

O forse sì? Racconta Nicola Piovani di essere andato a trovare il «Maestro» dopo un acclamatissimo concerto a Parigi. «Ti sei convinto – gli avrebbe detto Piovani – che la musica da film è stata la grande musica del Novecento, tout court?». «Comincio a farci un pensiero», avrebbe risposto Morricone.

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