Pharoah Sanders in 12 dischi

Perché ci mancherà Farrell Pharoah Sanders da Little Rock

Pharoah Sanders Black Unity
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jazz

Pharoah Sanders non è stato solo la stella più luminosa e incandescente nel cielo dell'ultimo Coltrane, che assieme agli altri esploratori dell'infinito celeste - Alice McLeod e Rashied Ali – ha spinto a intraprendere rotte galattiche più rischiose dopo il big bang di Ascension; a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, con una stupefacente serie di dischi pubblicati soprattutto per Impulse!, il Faraone di Little Rock è riuscito come pochi (come nessuno, forse) a trovare un miracoloso punto di equilibrio e di fusione tra la spiritualità illuminata e il fervore religioso del maestro John, il verbo afrofuturista di Sun Ra e della sua cerchia (leggenda vuole che l'Arkestra fosse il rifugio privilegiato del giovane Farrell nei primi, difficili giorni newyorchesi) e la spinta globalista di Don Cherry.

Insomma, le tre diverse anime della seconda ondata free, quella dei discepoli dopo la verità dei maestri (Cecil, Ornette, Ayler), in una visione del fare musica amorevolmente inclusiva (Love è la parola che più ricorre nel vocabolario di Sanders), mistico-estatica e ritualistica. Che a partire dal cuore del decennio successivo, e fino alle porte del terzo millennio, si è andata via via assestando su un'idea di jazz quasi più coltraniana del vero Coltrane; grazie anche qui a una serie di dischi memorabili che non hanno avuto la stessa fortuna dei fratelli più anziani, è vero, ma che sono stati fondamentali nell'avvicinarlo alle orecchie degli ascoltatori meno propensi alla furia dei giorni di tuono.

In tempi recenti infine, un po' a sorpresa ma nemmeno troppo, le tante scene di una nuova scena polverizzata e allo stesso tempo iperconnessa, in quell'eterno scomporsi e ricomporsi dell'immaginario jazz che è il vero elisir di lunga vita della musica che fu di Charlie Parker, si sono specchiate e riconosciute nella visione panteistica del sacerdote Pharoah, tributandogli i giusti meriti ed elevandolo al rango di riferimento inevitabile.

Un pensatore di nuovi e lontanissimi orizzonti, uno straordinario catalizzatore di energie cosmiche, un jazzista nel senso più profondo, antico e vero del termine; ma anche uno strumentista formidabile, un sassofonista che ha lasciato una traccia indelebile nella storia del suo strumento, approdando a una magistrale maturità dopo l'iconoclastia degli esordi.

Scomparso alla soglia degli 82 anni, Farrell Pharoah Sanders da Little Rock lascia un vuoto enorme al centro del vecchio e del nuovo universo black. Dodici dischi sono pochi per un ritratto a tutto tondo, ma l'invito all'ascolto è solo l'inizio del viaggio interstellare. Con una doppia avvertenza: la prima è che si è scelto di non pescare nel catalogo di Coltrane; la seconda è che l'anno indicato fa riferimento alla data di registrazione e non a quella di pubblicazione.

1. Sun Ra - Featuring Pharoah Sanders and Black Harold, 1964 (El Saturn)

Tutto ebbe inizio con Sun Ra. Anche se queste registrazioni risalenti al dicembre del 1964 sono rimaste negli scatoloni di casa Blount fino al 1976 e pubblicate per la prima volta per intero solo nel 2012 nel quadruplo In the Beginning, curato dalla ESP e uscito a nome Sanders. Chi frequenta e conosce l'Arkestra del periodo sa benissimo cosa aspettarsi (e probabilmente conosce a memoria il materiale); a tutti gli altri basti sapere che il valore storico del documento è enorme, e che nel calderone della doppia serata organizzata alla Judson Hall per il mitico Four Days in December, festival manifesto della Jazz Composer's Guild di Bill Dixon, c'è già una prima mappa del dna del futuro Faraone.

2. Don Cherry - Symphony For Improvisers, 1966 (Blue Note)

L'altra fonte di ispirazione del Pharoah a venire. In uno di quei dischi che non hanno bisogno di presentazioni. Due lati da una ventina di minuti, con Ed Blackwell maestro di tutti i tamburi e con l'elemento straniante Sanders che all'ottavino caratterizza il sound della band, spostando l'asse di rotazione verso un improbabile Est che ancora profuma di Manhattan e le terre della madre Africa appena oltre il ponte di Williamsburg. Il Gange e il Nilo sono lì, non resta che fare il grande salto.

3. Pharoah Sanders - Tauhid, 1966 (Impulse!)

Il grande salto. Il primogenito della famiglia arancio-nera, l'esordio per l'etichetta di Bob Thiele. Registrato un anno e mezzo dopo Ascension e in coda alla lunga estate del tour giapponese del 1966 con il quintetto di Alice e John Coltrane (altro snodo cruciale), Tauhid è uno dei momenti chiave non solo della discografia del Faraone ma dell'intera stagione free. Basterebbero i sedici a passa minuti di “Upper Egypt & Lower Egypt” per garantirgli un posto nella storia del jazz, con la chitarra di Sonny Sharrock e i tappeti di percussioni a scandire i tempi di una lunga meditazione sui concetti di spazio e di ritmo. Essenziale.

4. Pharoah Sanders - Karma, 1969 (Impulse!)

L'altro disco ineludibile del periodo Impulse!, sorta di contraltare ultraterreno al tribalismo di Tauhid. Lo sguardo del Faraone si sposta verso il divino, consegnando agli annali quello che probabilmente resta il suo brano più celebre e citato, composto a quattro mani con il cantante Leon Thomas: “The Creator Has a Master Plan”, summa filosofica della religiosità di Sanders, parente stretto – e secondo tempo ideale – della dichiarazione d'amore universale di A Love Supreme; l'invocazione iniziale del sax tenore spalanca le porte a mezz'ora abbondante di andate e ritorni, di caos e di furia mistica che tocca vette di sublime anarchia noise.

Capolavoro anche grazie a un drappello di complici meravigliosi: James Spaulding, Lonnie Liston Smith, Richard Davis, Reggie Workman, Billy Hart e il già citato Leon Thomas.

5. Leon Thomas - Spirits Known and Unknown, 1969 (Flying Dutchman)

L'esordio del fido scudiero è una sorta di progetto parallelo considerando l'estrema vicinanza tra i due a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Sanders si camuffa da Little Rock per questioni contrattuali, ma è impossibile non riconoscere la voce del vero padrone di casa quando esplode in “Malcolm's Gone”, “Damn Nam” o “One”. New vocal frontiers, recita il sottotitolo del disco: un'altra dimensione visitata da Pharoah il viaggiatore.

6. Alice Coltrane - Journey in Satchidananda, 1970 (Impulse!)

Le affinità elettive con Alice sotto forma di requiem mistico per lo spirito guida Coltrane. C'è anche Rashied Ali alla batteria, a garantire la continuità ritmica con gli anni del viaggio verso l'assoluto fotografati da dischi come Om, Meditations e Kulu Sé Mama. Meno furia e più India, meno caos e più raccoglimento, meno demoni e più angeli; l'onnipresente tambura e l'arpa a sbiadire i contorni del reale, a indicare la via per un altrove musicale fatto di ascesi, di introspezione, il sax soprano di Sanders a doppiare la voce del maestro assente. Celestiale.

7. Pharoah Sanders - Black Unity, 1971 (Impulse!)

Un'opera-monumento, una traccia unica spalmata su due facciate che sfiora i quaranta minuti di estenuante concitazione. Dentro gli infiniti universi dello sciamano Sanders, in sella a una jam acidissima che rimanda al Coltrane più intransigente e alle sparate a tutto volume di Archie Shepp. Doppia batteria, doppio contrabbasso, tre fiati in prima linea (Con il Faraone ci sono Carlos Garnett e Marvin Hannibal Peterson): a rotta di collo verso il centro del groove. Irresistibile.

8. Pharoah Sanders - Pharoah, 1976 (India Navigation)

Un disco portale, che sta alla discografia di Sanders come Lanquidity sta all'immenso catalogo di Sun Ra. A dettare il mood dell'ipnotica "Harvest Time" è la chitarra di Tisziji Muñoz, che stende un cangiante tappeto di arpeggi sul quale si srotolano le frasi sornione del sax. Si torna al ritmo e al gospel di matrice ayleriana in "Love Will Find a Way", magistrale saggio di psichedelia a tinte black-rock, e "Memories of Edith Johnson", che chiude il cerchio invocando la misericordia del Creatore.

9. Pharoah Sanders - Rejoice, 1981 (Theresa Records)

L'incontro con Elvin Jones e Bobby Hutcherson nel brano che dà il titolo al disco vale da solo il prezzo del biglietto. Ci sono echi del Faraone del periodo Impulse!, a partire dall'invocazione iniziale, ma già si avverte un deciso ritorno a dinamiche più jazz. Senza comunque rinunciare a momenti di pura estasi coltraniana, ad esempio nella struggente "Farah". Da sacerdote inquieto a saggio pensatore.

10. Sonny Sharrock - Ask the Ages, 1991 (Axiom)

L'apocalisse free-jazz-rock secondo Bill Laswell, padrone di casa e produttore della rimpatriata tra Sharrock e Sanders, compagni di strada fin dai tempi di Tauhid. Dietro a piatti e tamburi di nuovo Elvin Jones, perfettamente a suo agio nelle vesti di propulsore ritmico di un sabba sonoro travolgente. "Many Mansions" l'apice della scaletta, con il soprano del Faraone a trascinare i compagni di scorribande dentro l'occhio del ciclone. Mazzate di fuoco.

12. Pharoah & The Underground - Spiral Mercury, 2013 (Clean Feed)

Le due anime Underground di Rob Mazurek, Chicago e São Paulo, convocate sul palco per un rito collettivo che sa passaggio di consegne tra viaggiatori astrali. Verso l'infinito e oltre, sulle ali di una celebrazione dell'epopea faraonica che certifica la centralità della lezione di Sanders per un ampio arco di jazzisti assetati di spiritualità. Dal vivo anche in Italia, in un memorabile concerto al Manzoni di Milano.

12. Pharoah Sanders & Floating Points - Promises, 2020 (Luaka Bop)

L'ultima stella cadente, il disco che la recente scomparsa ha giocoforza trasformato in un toccante testamento spirituale. Il ritorno al Creatore – del quale per tutta la vita ha cantato le lodi – è un viaggio di sola andata lungo la via lattea di una suite che ha il pregio di lasciare che sia il Faraone a dire tutto. Amen.

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