La Roma jazz del Principe Pepito

In un recente libro Marco Molendini ripercorre la vita di Pepito Pignatelli

Picchi e Pepito Pignatelli
Picchi e Pepito Pignatelli
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Le vicende del jazz romano della seconda metà del Novecento portano indelebilmente il nome di Pepito Pignatelli, nobiluomo dal nome assai più lungo e adorno di titoli, inesauribile e inarrestabile motore della vita notturna capitolina dai temi della Dolce Vita.

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Insieme alla bellissima moglie Picchi sono stati testimoni, protagonisti, propulsori, punti di riferimento per diverse generazioni di musicisti, appassionati e critici, tra cui Marco Molendini, storica firma del Messaggero che all’amico dedica ora un libro sincero e appassionato, Pepito. Il Principe del jazz (Minimum Fax, 231 pp., 16€).

 

Ripercorrendo la vita di Pignatelli, da subito costellata di anticonformismo e di un amore senza limiti per il jazz, Molendini ci fa immergere - grazie a una prosa asciutta e divertita, che non cede mai al sentimentalismo, ma restituisce bagliori di quel calor bianco dell’epoca - in una Roma attraversata da grandi del jazz in cerca di un contesto più umano per rimettersi in carreggiata (da Chet Baker a Dexter Gordon), che si apre su cantine malsane - magari di proprietà ecclesiastica - per inghiottire nella notte una insopprimibile vitalità musicale e umana; che consente ai giovani talenti di confrontarsi da subito con personalità e linguaggi di caratura mondiale.

Molte le pagine memorabili del libro, dalle retate della polizia al mancato viaggio negli States con Romano Mussolini, passando per l’alcolismo di Garrincha, l’esilarante incontro di Pepito che tenta di vendere i dadi da brodo al futuro Papa Paolo VI o la disastrosa risposta alla zia che voleva farlo erede universale. Ci sono i vari club di Pepito, dal Blue Note al Music Inn, c’è Alberto Alberti, la nascita di Umbria Jazz, le bizze di Nina Simone, le loro notti più o meno riuscite (Bill Evans che non riesce più a suonare sui tasti umidi del pianoforte e se ne va), debiti e lucignoli, una voglia di mangiarsi la vita a ritmo di jazz che oggi suona quasi più lontana di quello che anagraficamente è, complice la professionalizzazione e istituzionalizzazione di tutto il settore e la perdita di centralità economica del “luogo” club.

Non manca il Pepito batterista, sempre pronto a sedersi dietro piatti e tamburi, sicuro che il disco in trio con Mal Waldron inciso per la Karim sarebbe stato un successone e invece non viene quasi distribuito (non a caso ora in rete si trova a una bella sommetta, ma non ne abbiamo estratti su YouTube), non mancano il Mingus del periodo di Todo Modo né gli scalpitanti Pieranunzi, Urbani, Gatto, Rea, che al Music Inn muovono i primi passi - a volte accompagnati dai genitori.

La fine, dolorosa, di Pepito e poi della malinconica e amatissima Picchi chiude una storia che ci fa rivivere alcuni momenti fondamentali per il jazz a Roma e in Italia, un mondo fatto di fumo, vino, note, sguardi, fughe precipitose e di una passione per il jazz che andava, letteralmente, oltre ogni ostacolo. Da leggere!

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