Insegnare la storia del jazz oggi in Italia

Una tavola rotonda con Stefano Zenni, Maurizio Franco, Riccardo Brazzale, Luigi Onori, Claudio Sessa, Vincenzo Martorella e Francesco Martinelli

Storie del jazz
Louis Armstrong - Hot Five
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Con la recente pubblicazione della Storia del jazz (Hoepli) firmata da Maurizio Franco, Riccardo Brazzale e Luigi Onori, l'attuale panorama delle "storie del jazz" disponibili in libreria – per non citare i tanti ottimi lavori monografici e specialistici che arricchiscono la pubblicistica disponibile – è piuttosto corposo: c'è quella di Stefano Zenni per Stampa Alternativa, i due volumi di Claudio Sessa per il Saggiatore, quelli tradotti da Einaudi e EDT di Alyn Shipton e Ted Gioia, oltre ovviamente a evergreen come Polillo e Hobsbawm.

Questa pregevole ricchezza di opzioni e di angolazioni (il più recente Hoepli sceglie ad esempio un approccio con molti box/scheda) stimolano una serie di domande e riflessioni che abbiamo voluto provare a condividere in forma dialogica e il più possibile snella; non tanto e non solo per valutazioni di tipo metodologico, ma soprattutto per provare a indagare la relazione con un corpus di lettori possibili che va dai semplici appassionati ai musicisti, dai collezionisti accaniti ai neofiti a, soprattutto, a studentesse e studenti di Università e Conservatori o scuole equiparate, che a volte sembrano manifestare – una volta diplomati – delle carenze di approccio e di conoscenza storica piuttosto evidenti e problematiche, trattandosi di una pratica musicale in cui la conoscenza della tradizione è rilevante.

La situazione

Posto dunque che nel nostro "mondo" l'uscita di una storia del jazz o di un libro firmato da uno studioso che stimiamo è sempre un momento di arricchimento e piacere professionale, inizierei la nostra chiacchierata con un primo giro di tavolo chiedendovi quali storie del jazz vengono adottate nei nostri Conservatori e che feedback riscontrate da parte di allieve e allievi?

STEFANO ZENNI: «Insegno Storia del jazz di ruolo al Conservatorio di Bologna e con un contratto a ore in quello di Firenze. In entrambi i casi faccio utilizzare, ovviamente, la mia storia del jazz. Oltre agli ovvi motivi, la mia storia è stata pensata anche per fornire ai lettori una selezione ragionata di titoli fondamentali da ascoltare, cosa che manca alle altre storie, che prediligono l’approccio da casi di studio (Shipton, ad esempio), che trovo non opportuna a questo livello formativo. Il volume è corposo e denso di informazioni, ma posso diluire il corso in due o tre anni, a seconda dei casi, e quindi gli studenti hanno modo di lavorarci con tutto il tempo necessario. Peraltro nella prima lezione raccomando sempre di iniziare a leggere e ascoltare fin dall’inizio del corso, senza arrivare a ridosso per l’esame, data la mole di informazioni e concetti da studiare».

MAURIZIO FRANCO: «Credo che ogni docente adotti i libri che sono più funzionali al suo corso, ma devo fare una distinzione: non tutti i docenti di Storia del jazz o di Analisi delle forme performative e compositive jazz, che sono poi le due materie che rientrano tra quelle musicologiche, sono specialisti della materia come i colleghi che partecipano a questa tavola rotonda virtuale».

«Non è infrequente che le cattedre storiche vengano affidate a musicisti privi di ogni metodologia e a reale competenza in materia».

«Non è infrequente che le cattedre storiche vengano affidate a musicisti privi di ogni metodologia e a reale competenza in materia, ma anche a studiosi di ambito eurocolto, ugualmente digiuni di jazz. Onestamente, non so che libri facciano adottare, nel caso abbiano una bibliografia consigliata».

FRANCESCO MARTINELLI: «Per quanto mi riguarda personalmente consiglio agli studenti di usare sia il libro di Gioia che quelli di Zenni, integrando se possibile l'approccio narrativo e storico di Gioia con quello più analitico di Zenni: una volta che si sono appassionati alla storia e ai personaggi è più facile che seguano analisi dettagliate. Molti ragazzi arrivano conoscendo il libro di Polillo che spesso trovano in casa, e tra i pochi altri testi diffusi c'è l'”autobiografia" di Miles Davis. Purtroppo a quell'età la pubblicistica negativa sugli eroi tragici del jazz e del rock fa ancora molta presa, come è naturale».

«La pubblicistica negativa sugli eroi tragici del jazz e del rock fa ancora molta presa».

RICCARDO BRAZZALE: «Quando nel 2006 ho iniziato a insegnare Storia in Conservatorio a Vicenza, fornivo un sacco di fotocopie, tratte da libri, manuali, enciclopedie, però ho sempre chiesto agli allievi che prendessero tanti appunti. Prima dell’arrivo della Storia di Stefano, che poi è diventata per i miei studenti testo di riferimento (sino al recente arrivo della Storia del jazz Hoepli), mi hanno aiutato molto i cd-rom di Ken Burns che, pur con tutte le note lacune, forniscono una base soprattutto iconografica per me fondamentale. Gli studenti di conservatorio non sono dei veri universitari e faticano a comprare giusto un libro e, di sicuro, quantomeno in italiano. Spesso, di base, non conoscono nemmeno i dischi fondamentali: non facciamoci troppe illusioni. Fermo restando che, per un editore che punta a una certa penetrazione sul mercato, i primi acquirenti non sono gli studenti ma gli appassionati di età superiore a quella scolastica».

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LUIGI ONORI: «Nella mia esperienza al Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone (2006-2019) ho fatto adottare in un primo periodo il testo, aggiornato, di Polillo fino ad arrivare alla possibilità di scegliere tra la Storia globale di Zenni, Improvviso singolare di Sessa e il volume di Shipton, con relativi percorsi. I primi due hanno avuto i maggiori riscontri, anche se il testo di Zenni – secondo alcuni allievi – era troppo vasto nei riferimenti; quello di Sessa è stato spesso preferito per l’impostazione sugli ascolti che è speculare al mio metodo di insegnamento. Consensi ho riscontrato anche (ma era un testo “accessorio”) per l’agile Guida completa per ascoltare e amare la musica jazz di John Szwed (EDT). Da quest’anno al Saint Louis College of Music di Roma ho adottato La storia del jazz che ho scritto insieme a Brazzale e Franco. Nel testo abbiamo messo in parallelo le vicende musicali (e non) negli USA, in Europa e in Italia nonché dato ampio spazio agli ultimi decenni e alla contemporaneità. Ci sembra importante che lettori/trici, allievi/e abbiano un quadro più bilanciato, conoscendo con il giusto (e storicamente corretto) rilievo anche il jazz nato in Europa, nel nostro paese (e nel resto del mondo), spesso ignorati».

CLAUDIO SESSA: «Ai miei allievi dei primi anni (insegno nei Conservatori di Cuneo e della Spezia, dopo aver iniziato nel 2000 a Trieste) propongo una rosa di titoli in lingua italiana: i testi di Gioia, Shipton e Zenni, oltre al mio Improvviso singolare. Segnalo anche testi in inglese (Giddins-DeVeaux, Porter-Ullman, Tirro) ma mi pare che finora nessuno si sia preso la briga di leggerli. Avverto subito gli studenti che non accetto testi meno accurati. Escludo anche volumi come Polillo o Hobsbawm, non perché non li stimi ma perché ormai, didatticamente parlando, sono superati; sarebbero molto utili come approfondimenti successivi "storicizzati" (mi piacerebbe molto che esistessero corsi di storiografia del jazz...). Per gli studenti del biennio realizzo corsi di storia degli strumenti e analisi delle forme nei quali indico testi più specifici: per esempio I segreti del jazz di Zenni, Jazz al microscopio di Piras o il mio Le età del jazz – I contemporanei».

VINCENZO MARTORELLA: «Il mio testo di riferimento è lo Shipton, ma se i ragazzi hanno già iniziato a studiare il libro di Zenni con un altro insegnante, possono ovviamente proseguire con quello. In realtà, non esiste un libro perfetto di storia del jazz: questo è il motivo per il quale trovo necessario fornire agli studenti materiali supplementari in quantità, soprattutto recenti o addirittura recentissimi, che siano in grado di ampliare le prospettive. Purtroppo, la scarsa conoscenza anche solo dell’inglese letto rende l’operazione spesso inutile e/o velleitaria».

«Trovo che ormai l’approccio finalistico, teleologico alla storia del jazz non sia più in grado di rendere conto della complessità dei fenomeni».

«In linea più generale, trovo che ormai l’approccio finalistico, teleologico alla storia del jazz non sia più in grado di rendere conto della complessità dei fenomeni, delle intersezionalità, degli interstizi e delle sovrapposizioni tra eventi storici, politici, sociali e artistici».   

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Un mondo che cambia

In un mondo fortemente digitalizzato, in cui si può accedere a informazioni (a volte preziose e contestualizzare, il più delle volte parziali o imprecise) con grande semplicità, quale impostazione "manualistica" secondo voi funziona meglio a livello formativo? Dove avete riscontrato delle criticità come docenti e come autori?

STEFANO ZENNI: «Il manuale non basta: sono necessari il confronto con il docente in aula e soprattutto l’ascolto e la discussione della musica. Molto dipende dal tempo a disposizione e io ho organizzato i corsi in questo modo: ogni annualità prevede una parte “monografica”, svolta in aula su un tema specifico che cambia ogni anno, con ascolti, analisi e approfondimenti, e una "istituzionale”, che abbraccia lo studio generale della storia del jazz, che va fatto leggendo il manuale da un certo capitolo a un altro. Inoltre fornisco una lista di ascolti obbligatori; quindi all’esame riproduco due brani senza dare indicazioni, e chiedo di scrivere un commento storico-estetico a quanto ascoltato, in 30 minuti a brano. In questo modo gli studenti, che in genere sono pigri o disorientati con gli ascolti, sono “costretti” ad assimilare almeno 30-40 brani di valore storico ad annualità. Il metodo sembra funzionare».

«Il manuale non basta: sono necessari il confronto con il docente in aula e soprattutto l’ascolto e la discussione della musica».

MAURIZIO FRANCO: «Non si tratta di manuali, ma di libri di livello universitario che possano fare da supporto ai corsi. Anche per le tesi personalmente non accetto riferimenti solo da internet e da Wikipedia, ma voglio che ci sia un lavoro di ricerca su testi di carattere scientifico. In realtà, il vero problema non è il digitale, bensì il crollo del livello culturale dei giovani che si traduce anche nella mancanza di un reale background storico relativo al jazz. In sostanza, arrivano all’Università senza aver fatto le scuole superiori e qualche volta nemmeno le medie».

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FRANCESCO MARTINELLI: «I ragazzi chiedono secondo me un percorso proprio perché sono smarriti di fronte alla disponibilità enorme di materiali indifferenziati e alla convinzione che "sia tutto a portata di clic" (uno dei più falsi luoghi comuni in circolazione). La criticità maggiore sta nella quasi totale mancanza di percezione della centralità del colonialismo europeo e della questione razziale nella storia, nella politica e nella cultura americana. Questo per me è il filo rosso che collega tutto, e io inizio dalla lettura in classe del prologo a Uomo invisibile di Ellison, dopo aver visto in pratica che consigliarne la lettura non serve, perché ai ragazzi mancano molti riferimenti chiave che vanno forniti dal docente. Non bisogna dimenticare che di fronte a una carta muta delle Americhe molti ragazzi sono in difficoltà a indicare la posizione delle principali città USA e le relazioni spaziali tra quelle che citiamo ogni volta negli svolgimenti storici».

«La criticità maggiore sta nella quasi totale mancanza di percezione della centralità del colonialismo europeo e della questione razziale nella storia, nella politica e nella cultura americana».

RICCARDO BRAZZALE: «Io ho insegnato a “usare” il libro di Stefano, avendo dedotto quali erano i capitoli che li spazientivano e quali invece da considerare irrinunciabili. Gli studenti esigono schemi, capitoli corti, chiarezza su chi e cosa è più importante. In questo senso non amano l'approccio di Gioia, improntato su capitoli lunghi, mentre Shipton, banalmente, elenca troppi nomi. È un peccato che Jazz di John Fordham sia, di fatto, sempre stato introvabile. L’impostazione editoriale di Hoepli è molto gradita perché consente anche la consultazione enciclopedica, quantunque nella prossima edizione sarà da chiedere un indice-sommario ben più dettagliato. In tutti i casi, anch’io come Stefano, oltre a tutti gli ascolti che si fanno a lezione, assegno un elenco di circa 40 brani d’obbligo che diventano materia d’esame: anzi, all’appello si parte proprio dall’ascolto e dalla riconoscibilità di titoli, esecutori e periodo, per fare un ragionamento».

LUIGI ONORI: «Sono favorevole a una pluralità di approcci nella “impostazione manualistica”. Devo però far presente che, rispetto ai primi anni di docenza, il background jazzistico degli allievi e allieve è molto cambiato e risulta spesso esiguo. In questo senso è utile un approccio divulgativo, come quello che abbiamo provato nella nostra Storia del jazz. Le criticità riguardano la mancanza di un “basamento” di ascolti fondamentali perché molti studenti (meno le studentesse) mantengono un atteggiamento da fan e non assumono una visione storica del jazz, che non è un insieme organico – sia chiaro – ma al cui interno legami e rimandi sono importanti e fondanti. Peraltro è, secondo me, importante un approccio ampio alla cultura afroamericana, con riferimenti al cinema, alla saggistica e alla letteratura che con Colson Whitehead e Ta-Nehisi Coates ci sta regalando romanzi fondamentali».

«È importante un approccio ampio alla cultura afroamericana, con riferimenti al cinema, alla saggistica e alla letteratura».

CLAUDIO SESSA: «Il feedback è abbastanza equilibrato, forse con una lieve preferenza per Zenni. Però, in sede di esame, riscontro ancora moltissime opinioni e semplificazioni in contrasto con ciò che insegno io e che vien detto anche dalla più parte di questi testi: indice che vengono ancora consultati i “vecchi” testi, che probabilmente girano in molte case, o informazioni provenienti da internet. L'esperienza mi insegna comunque che bisogna insistere fortemente sui fondamentali, che per me sono la storia del mondo nell'età moderna, la storia degli Stati Uniti dall'età coloniale ai nostri giorni e i parametri fondamentali che distinguono il jazz dalle altre musiche. Tutto il resto, da Buddy Bolden in poi, è relativamente secondario, se le basi sono robuste».

VINCENZO MARTORELLA: «Avendo insegnato in una decina di Conservatori, oltre al Saint Louis di Roma, trovo che la risposta degli studenti sia in qualche modo commisurata al lavoro complessivo dei Dipartimenti di jazz, dunque legata alle dinamiche, al lavoro d’insieme, alla capacità di tutti gli insegnanti di stimolare un interesse sano verso l’argomento, di accendere la curiosità rispetto alla storia e alle vicende del jazz. Se il processo è virtuoso, il vero manuale è il rapporto collettivo, la discussione di fatti e repertori che agli studenti arriva non solo per via del “libro di storia”, che sistematizza e chiarisce, ma soprattutto attraverso la contestualizzazione politica e culturale condivisa che si fa in classe».   

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La sfida digitale

Quali passi si possono compiere secondo voi nell'integrazione con il digitale (dal cd-rom di Il jazz. I dischi, i musicisti, gli stili di Marcello Piras alle playlist che accompagnano i testi odierni, alla realtà aumentata delle immagini della Storia Hoepli)?  Podcast, webinar o video possono veicolare concetti e idee che abbiano valenza formativa al di là della sana divulgazione?

STEFANO ZENNI: «Sono importanti come integrazione alla formazione generale. A patto che siano selezionati e garantiti dal docente, che di volta in volta suggerisce cosa ascoltare o guardare per approfondire certi argomenti. Questo ruolo di guida è essenziale, perché la sovrabbondanza di offerta nel mondo digitale ha un effetto paralizzante sugli studenti, che alla fine girano in tondo seguendo la carota dell’algoritmo. In definiva le fonti digitali sono utili per l’accesso ai materiali, ma il loro uso non può che essere critico e consapevole. Per mia esperienza vedo che la consapevolezza di questi aspetti ha un effetto positivo sugli studenti. Non meno importanti sono le masterclass in presenza, anche di Storia del jazz, che a Bologna organizziamo regolarmente con vari ospiti».

«La sovrabbondanza di offerta nel mondo digitale ha un effetto paralizzante sugli studenti»

MAURIZIO FRANCO: «Con il digitale facciamo i conti tutti i giorni e come tutti i mezzi si può usare a vari livelli: divulgazione, formazione, alta specializzazione. Del resto io sto insegnando online da circa un anno e trovata la formula giusta, che è diversa dall’insegnamento in presenza, si ottengono risultati anche migliori. Certo, si lavora di più, ma questo lo mettiamo in conto».

FRANCESCO MARTINELLI: «Purtroppo da mesi non facciamo altro che digitale, i ragazzi comunque vivono in un mondo appunto digitalizzato e hanno invece bisogno di contatti diretti e dialogo personale. Non avendo pratica di playlist e piattaforme digitali non uso questi strumenti direttamente, ma vedo che spesso i ragazzi localizzano rapidamente le tracce, quando sono disponibili. Le iniziative online hanno avuto un buon successo, e certo possono funzionare anche per la formazione».

RICCARDO BRAZZALE: «A mio parere se Jazz di Ken Burns fosse tradotto in italiano (mi pare che per ora non ci siano neanche i sottotitoli) sarebbe di notevole aiuto e apprezzato, perché è una miniera di immagini formidabile, oltre che uno strumento comunicativo quanto a contestualizzazione storico-sociale (poi, ovviamente, sta al docente spiegare dove è mancante). I webinar si rivolgono quasi sempre a un pubblico generalista, mentre sono utilissimi i video di interviste e di concerti live, i film, i docufilm: penso, per esempio, a quelli su Monk, Miles o su Lee Morgan».

LUIGI ONORI: «Questo è un terreno aperto dove, però, manca spesso un approccio metodologico. Come tutti mi servo di materiali video che provengono da YouTube, materiali che – però – sono privi di dati storici e vanno contestualizzati. In questo senso c’è da lavorare su sitografie e cinegrafie selezionate e contestualizzate; l’apporto delle immagini e dei filmati è fondamentale anche perché spesso ai personaggi e ai luoghi nell’immaginario degli studenti – talvolta anche degli appassionati – non corrisponde nulla di preciso. Mi sono formato iconicamente sulle foto della rivista Musica Jazz che compro dal 1978 e per me sono state importanti; altrettanto utili sono le mappe (concettuali e non) che per esempio Stefano Zenni ha brillantemente usato nel suo volume storico.

CLAUDIO SESSA: «Personalmente fatico, con il monte ore a mia disposizione, a far ascoltare anche soltanto i brani musicali che ritengo necessari. In particolare la mia esperienza, che comprende anche un’ampia attività di conferenze, è che l’uso dei filmati può essere molto accattivante, ma limita in maniera radicale lo spazio per gli approfondimenti. Quindi, in sostanza, i diversi media vanno utilizzati in funzione dello scopo del nostro intervento: per quanto riguarda la didattica di livello universitario ritengo che il mezzo fondamentale rimanga il disco».

«Per quanto riguarda la didattica di livello universitario ritengo che il mezzo fondamentale rimanga il disco».

STEFANO ZENNI: «Sui filmati vorrei aggiungere che gli studiosi della nostra generazione sono cresciuti sostanzialmente con i dischi, e il filmato era vissuto come un bonus di eccezionale valore. Oggi invece – e giustamente – essi sono strumento indispensabile e, ho compreso con la mia esperienza, particolarmente utili per affrontare stili o ascolti più inconsueti, come ad esempio il free radicale».

VINCENZO MARTORELLA: «Questo è un punto nevralgico. Internet e l’infosfera sono il mezzo principale attraverso cui la maggioranza dei nostri studenti reperisce informazioni, apre finestre sul mondo, misura il proprio rapporto con la realtà. Essendo un processo irreversibile, credo sia il momento di ripensare la didattica in modo da saper sfruttare – con un robusto approccio metodologico – queste risorse. Abbiamo, credo, bisogno di un nuovo contesto pedagogico dentro il quale misurare le esigenze di studenti e insegnanti; in questo nuovo contesto, andrebbero individuati strumenti tecnologici, o sistemi di diffusione delle informazioni, alternativi. Ma è una strada lunga. Webinar, podcast, video possono avere una funzione importante: bisogna sperimentare, osare, sbagliare e conservare gli errori “giusti” che si è commesso. Ma non si ha il tempo di farlo».

«Credo sia il momento di ripensare la didattica in modo da saper sfruttare – con un robusto approccio metodologico – le risorse del web».

Il contesto internazionale

Quali sono le pratiche e le linee che si usano in altri paesi Europei? Vi confrontate con colleghi di altre nazioni?

STEFANO ZENNI: «Non conosco particolari occasioni di confronto con altri docenti europei. Noi non cerchiamo loro, loro non cercano noi. Sarebbe forse opportuno creare delle occasioni di incontro e scambio. Inoltre dubito che i docenti di storia europei dialoghino tra loro. Si tratta anche di capire quanto lo studio della storia pesi nei curricolari scolastici all’estero, in termini di numero di ore, tipologia di esame eccetera. Ad esempio lavorando con gli studenti Erasmus ho la percezione che altrove la Storia del jazz abbia un peso minore che da noi. Sono tutti aspetti che potrebbero essere approfonditi in un convegno o una tavola rotonda internazionale».

«Lavorando con gli studenti Erasmus ho la percezione che altrove la Storia del jazz abbia un peso minore che da noi».

MAURIZIO FRANCO: «Sì, ogni tanto, e mi rendo conto che noi italiani rappresentiamo un’eccellenza nell’insegnamento storico e nell’analisi. Naturalmente, come sempre avviene in questo paese, ci sono le punte, che non sono pochissime, e poi il vuoto sino al baratro di insegnamenti storici fatti da chi storico non è, come scrivevo all’inizio».

FRANCESCO MARTINELLI: «Per fortuna ho avuto la possibilità di confrontarmi con molti altri colleghi nella discussione sui limiti del "canone" jazzistico modellato su quello della musica classica europea.  Walter van de Leur è uno dei più attivi in questo campo. Devo dire che la nostra presenza (italiana) sulla scena internazionale è ancora assai scarsa, non sono stati tradotti lavori che varrebbero la pena (speriamo quello di Bragalini) e le presentazioni ai congressi come Rhythm Changes in cui si sente il polso della ricerca sulla storia del jazz a livello internazionale molto poche. Gli studiosi della popular music sono in questo senso assai più avanti e abbiamo molto da imparare».

«La nostra presenza (italiana) sulla scena internazionale è ancora assai scarsa».

RICCARDO BRAZZALE: «Francamente non sono molto aggiornato sui metodi europei (per quanto se ne parli con chi frequenta gli Erasmus o i master in Olanda e in Austria). Mi confronto molto coi colleghi italiani e credo di essere più fortunato di Maurizio con i colleghi-musicisti, molti dei quali leggono davvero tanto (specialmente autobiografie, spesso in inglese) e sono autori di discografie personali, magari diverse da quelle mie».

LUIGI ONORI: «Non ho avuto occasioni di confrontarmi con colleghi stranieri. Insegnando dal 2015 presso il Saint Louis Music College, però, mi capita spesso di avere allievi di altre nazioni in Erasmus: in genere faticano un po’ ad adattarsi ad un’impostazione storica ampia, rispetto a interessi strumentali o monografici più ristretti».

CLAUDIO SESSA: «Purtroppo ho avuto pochissime occasioni per confrontarmi con colleghi di altri paesi. Del resto, se confronto dev’esserci, credo che vada privilegiato quello con i colleghi italiani: come ho spesso sostenuto con tutti loro, in assenza di reali programmi di studio unificati, dovremmo trovare il modo d’incontrarci di tanto in tanto per condividere un patrimonio di conoscenze didattiche da non disperdere».

VINCENZO MARTORELLA: «In generale, in questi ultimi anni si è acceso un dibattito estremamente interessante su modi alternativi di insegnare la storia del jazz. Un confronto che sta producendo idee, proposte e prospettive di eccezionale interesse, sia in (nord)Europa che negli Stati Uniti. Negli Usa, peraltro, sta venendo fuori una generazione di giovani studiosi (non superano la quarantina) particolarmente agguerrita, metodologicamente coraggiosa e pedagogicamente innovativa, che da noi manca».

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I rapporti con la popular music

Tra gli elementi che mi pare contraddistinguano le migliori musiciste e musicisti giovani oggi, c'è la più naturale flessibilità a muoversi all'interno di linguaggi molto diversi, a incorporare nella propria musica anche grammatiche e pratiche non jazzistiche. In questo senso una maggiore integrazione con studi e testi che riguardano la popular music può essere utile?.

STEFANO ZENNI: «Per quanto mi riguarda, più che la popular music, che gli studenti hanno sotto il naso tutti i giorni, incoraggio una maggiore conoscenza della tradizione classica europea, anche contemporanea, rispetto alla quale regna un’ignoranza preoccupante. La curiosità non manca, ma si avverte un misto di disinteresse e timore reverenziale che possono essere superati con suggerimenti di ascolti, discussioni in classe, letture, masterclass multidisciplinari ecc. E i risultati sono incoraggianti, anche a livello creativo».

«Per quanto mi riguarda, più che la popular music, che gli studenti hanno sotto il naso tutti i giorni, incoraggio una maggiore conoscenza della tradizione classica europea».

MAURIZIO FRANCO: «Ovviamente il paesaggio sonoro contemporaneo è ricco e non si può ignorare. Inoltre, è una logica fonte di ispirazione per chi suona jazz, musica che sa portare organicamente al proprio interno molteplici materiali. Non credo però che si debba ridurre sempre la questione alla popular music, in primis perché il jazz è una musica colta da sempre e come tale va trattata, poi perché oggi, in una società policulturale, occorre approfondire tanti ambiti. Perché non la musica eurocolta, quella africana, dell’India e così via e, naturalmente, anche il pop e il rock? Difficile invece confrontarsi teoricamente con il mondo della popular music senza condividere la comune natura audiotattile di queste musiche e poi le loro tecniche di analisi e di riflessione linguistica sono, almeno per me, lontane da quelle che si devono utilizzare nel jazz».

«Il jazz è una musica colta da sempre e come tale va trattata».

FRANCESCO MARTINELLI: «Come scrivevo prima, ne sono assolutamente convinto. Anzi sono convinto che il jazz debba essere molto più integralmente inserito nel quadro di tutte le musiche della diaspora africana, sia degli USA che del resto delle Americhe, e in generale nel quadro delle popular music urbane nate tra il 1890 e il 1925 dall'interazione tra mercato discografico e nuovi linguaggi musicali delle città, superando il concetto della sua "specificità". Lo stesso studio delle opere dei musicisti di jazz beneficia dell'inquadramento nella contemporanea situazione della popular music americana, a partire dai rapporti con ragtime e blues per arrivare alla cultura hip hop».

«Sono convinto che il jazz debba essere molto più integralmente inserito nel quadro di tutte le musiche della diaspora africana».

RICCARDO BRAZZALE: «A Vicenza sono molto importanti le condivisioni sia coi colleghi di musica moderna eurocolta, sia col dipartimento di musica indiana. Io stesso lo scorso anno ho insegnato Storia della musiche d’uso (che ritengo un campo affine non sottovalutabile) e da due anni insegno anche Storia delle musiche caraibico-sudamericane (per quest’ultima materia, dopo lunga ricerca mi sono attestato su un libro di testo fra quelli consigliatimi da Luca Conti: The Garland Handbook of Latin American Music). Avvertirei piuttosto l’esigenza di approfondire di più la musica africana, così come altre musiche etno-colte (penso ai Balcani o alla polifonia georgiana). Ma la sfida reale credo che oggi sia quella di essere veramente aggiornati sull’Europa (e il testo curato da Francesco, The History of European Jazz: The Music, Musicians and Audience in Context, è fondamentale, se non fosse per il prezzo assai poco popular), tanto è vero che quest’anno, al Conservatorio di Castelfranco Veneto tengo per il Biennio una monografia sul jazz europeo. Resta poi, in generale, il tema dell’approfondimento dei contemporanei: con Luigi e Maurizio, quantomeno ci abbiamo provato».

LUIGI ONORI: «Spesso sia il pubblico delle conferenze e dei concerti che gli allievi di conservatori e scuole di musica, come i jazzisti delle nuove generazioni non provengono dal jazz ma da altri mondi espressivi. A Frosinone ho avuto tanti studenti che erano di matrice heavy-metal e devo dire che molti di loro, anche attraverso le discipline storiche, hanno fatto passi da gigante. Non si può prescindere dai punti di partenza e, tanto per dire, il batterista e produttore discografico Federico Ughi – che vive e lavora molto spesso a New York a contatto con gente come Daniel Carter e William Parker – è partito dal punk. In questo senso potrebbe essere utile una maggiore integrazione con chi si occupa di popular music: spesso – sia nei conservatori che nelle scuole di musica – jazz e popular non incrociano i loro percorsi mentre sarebbe meglio una sinergia più stretta come accade, a quanto so, in istituzioni formative europee, ad esempio nei Paesi Bassi. Jazz, popular music e musica contemporanea dovrebbero poter lavorare in reciproca integrazione, con moduli formativi aperti e complementari, quindi con testi e studi dei rispettivi campi».

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CLAUDIO SESSA: «Nuovamente sottolineo l’esiguità del tempo a disposizione. Mediamente, ai miei studenti del triennio (il biennio non è frequentato da tutti) offro un corso di una sessantina di ore, nelle quali cerco di spiegare non solo i lineamenti, ma soprattutto lo spirito di cent’anni abbondanti di jazz; e non riesco mai a parlare dell’attualità (cioè, diciamo, dagli anni Novanta a oggi) come vorrei. Certamente non trascuro i riferimenti ad altre musiche, ma non posso integrarle in un programma di queste dimensioni. D’altra parte, ho una consolante partecipazione di studenti provenienti dai dipartimenti di pop, di elettronica e di classica; quindi una certa interazione avviene quasi naturalmente, ogni volta che è possibile».

VINCENZO MARTORELLA: «Non solo utile, direi necessaria. Insegnando anche Storia della popular music mi sono spesso trovato a costruire seminari o serie di lezioni pensate per classi trasversali, con risultati molto stimolanti. La ricchezza dei linguaggi contemporanei afferenti al jazz, e alla sua estetica spesso estranei, è una delle formanti di un corso monografico che da anni dedico al jazz del XXI secolo».

Conclusioni

Mi sembra che i temi che sono usciti dalle vostre esperienze e dalle vostre risposte siano tanti e molto stimolanti. Credo si apra una sorta di tensione dialettica tra l’acquisizione di aspetti storici e definizione di un canone (per quanto inserito in un contesto culturale complesso e stratificato) e la necessità di tener conto del fatto che studentesse e studenti di oggi – e dei prossimi anni – vivono ormai immersi in un sistema informativo/cognitivo radicalmente differente rispetto a quello cui siamo abituati.

Un sistema in cui il disco – che è stato il medium principale del jazz per un secolo – sta diventando un "concetto" del passato, dove le soglie attenzionali e il rumore di fondo non aiutano, ma anche, secondo me in cui c’è uno spazio molto interessante per trasmettere concetti di storia culturale con cui leggere anche il presente.

Poi, ovviamente, le storie del jazz di cui parliamo sono anche molto altro che non un manuale, sono rivolte a lettori di ogni tipo e non solo per la formazione, ma mi sembra importante darle come punto di partenza e non di arrivo.

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