Il suono in cui vivremo: immaginare la musica dopo la pandemia

Qualche profezia sulla musica che sarà nel mondo post-coronavirus (senza pretesa di azzeccarci)

Musica dopo la pandemia
Luigi Russolo, Ugo Piatti e gli intonarumori
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L’esercizio di indovinare come sarà la musica del futuro – e che ne sarà della musica, nel futuro – si è dimostrato negli anni spesso futile. I futuristi teorizzavano un mondo in cui si fa musica con i rumori (e in parte ci hanno preso). In un racconto del 1953, The Preserving Machine, Philip K. Dick  immaginava una realtà in cui, con lo scopo di salvaguardare il patrimonio della musica classica in prossimità dell’apocalisse, uno scienziato trova il modo di convertire le partiture dei grandi compositori europei in animali in grado di riprodursi e lottare per la propria sopravvivenza (non va a finire bene). Ma anche senza scomodare le avanguardie e la fantascienza, l’intera storia della tecnologia è piena di invenzioni inattese che hanno impresso un cambiamento profondo al nostro rapporto con la musica: basta pensare, negli ultimi decenni del ventesimo secolo, al Walkman, al campionatore o alla compressione mp3. Altre volte invece sono gli eventi epocali a cambiare molto velocemente il modo in cui l’uomo fa musica: le guerre, le crisi economiche, le pandemie – appunto.

Nell’ultimo mese la conversazione più comune tra chi si occupa di musica ha riguardato – spesso in maniera drammaticamente contingente – il tema della musica di domani. Che cosa cambierà per chi suona e per chi lavora nel mondo della musica? Quando potremo andare ai concerti? Potremo ancora andare ai concerti? Potremo andare a ballare? Come sarà la musica nel mondo che ci aspetta?

Quando potremo andare ai concerti? Potremo ancora andare ai concerti? Potremo andare a ballare? Come sarà la musica nel mondo che ci aspetta?

Non ho risposte a queste domande né più e né meno di nessun altro, perché (molto semplicemente) nessuno le ha. Ma quello che stiamo vivendo, in questa primavera del 2020, è un tempo sospeso, un tempo fuori dal tempo, una specie di grottesca deformazione di quel mondo nuovo che tarderebbe a comparire, sommerso com’è tra i relitti di quello vecchio, per riprendere un’immagine cara ai lettori di Gramsci. 

E allora, in questo tempo-non tempo, possiamo permetterci il lusso della profezia, di provare a immaginare il suono in cui vivremo (citando al futuro il titolo di un libro di Franco Fabbri). Non prosasticamente il “dopo” più immediato (quando che sia, ci sarà un dopo: dopo la fine del lockdown, dopo l’estate, dopo la scoperta di un vaccino) ma spingendo lo sguardo oltre l’orizzonte, verso un futuro più indistinto, che proprio perché è più remoto ci appare più immaginabile sulla base di quello che sappiamo, del presente e del passato.

Con il beneficio – comune a ogni profezia – di essere pronti a essere smentiti, e magari presi in giro, tra qualche anno.

Ascoltare

È esistita, al cuore del rapporto dell’essere umano con la musica, un’idea piuttosto singolare. Che essa fosse un oggetto materiale, conservata in forme stabili come segno su carta, o come informazioni sonore memorizzate su un supporto fisico, tradizionalmente di forma rotonda. È stata un’idea tenace ma tutto sommato non fortunatissima: è sopravvissuta a livello globale appena un paio di secoli, se identifichiamo nell’Ottocento – e in particolare dalla Seconda rivoluzione industriale – il momento in cui la musica è stata identificata con il suo spartito (anche economicamente: è questo il momento in cui nascono le società di collecting).

Tale idea, per quanto ben radicata, è durata ancora meno se guardiamo alla musica registrata. I primi cilindri fonografici cominciano a circolare dopo il 1877, e per gli esseri umani nati negli anni Dieci del terzo millennio (appena 150 anni dopo!) l’idea che la musica sia un oggetto fisico appare già residuale, relitto di un passato in cui le persone andavano fisicamente da Ikea ad acquistare costosi mobili ad hoc per stoccare la loro collezione di pezzi di plastica. (Resistono ancora – ma per quanto? – il libro e la libreria; ma del resto la loro storia è molto più lunga).

Nel mondo che segue la pandemia l’esperienza di ascolto è oramai completamente svincolata dal possesso di un oggetto fisico.

Nel mondo che segue la pandemia l’esperienza di ascolto è oramai completamente svincolata dal possesso di un oggetto fisico. Accettata da tempo ormai la prassi di pagare ogni mese una grossa corporation per garantirsi ascolti illimitati, la differenza è quella che passa tra lo scendere al negozio per comprare una cassa d’acqua e aprire il rubinetto della cucina per bere: l’acqua che ne esce è più o meno uguale, la bolletta si paga a fine mese direttamente con le spese di condominio, e non c’è neanche il problema di smaltire (o stoccare) i vuoti. E del resto non c’è neanche più il negozio per andare a comprarla, la musica. E non ci sono neanche più fabbriche che stampano dischi: con il prezzo del petrolio che sale, che senso ha farlo? E chi li comprerebbe ancora, con tutti i fantastici contenuti del passato musicale disponibili direttamente sullo smartphone?

Suonare, in casa

In moltissime culture gli uomini e le donne esorcizzano le loro crisi (personali o collettive che siano) affidandosi alla musica, attraverso modalità e riti più o meno culturalmente codificati e socialmente normati. All’esplodere della grande pandemia di Covid-19, le persone di tutto il mondo si riversano sui network sociali adeguandosi a un rito fino a quel momento appannaggio di esseri umani di prestigio riconosciuto (oltre che degli appartenenti a due subculture di recentissima definizione, noti come youtuber e instagrammer): la diretta. Molte di queste persone sono musicisti, o almeno suonano. Anche la pratica estemporanea della musica dai balconi si trasforma rapidamente – almeno nel mondo occidentale – in un evento replicato e diffuso in forma di audiovisivo: se anche avviene su un realissimo poggiolo o terrazzo, come modo per (ri)costruire una micro-comunità basata sul cortile, l’importanza sociale di questa pratica sembra risiedere più nella sua riproducibilità infinita attraverso internet, in una infinità di micro-comunità sovrapposte tra loro come nuvole.

Il web è invaso di contenuti sonori come mai era avvenuto prima, grazie anche al dirottamento di molti investimenti pubblici sulle infrastrutture di comunicazione. In effetti, il mondo durante e dopo la pandemia continua a essere pieno di musica, pur nella difficoltà nel farla in spazi fisici condivisi. Per buona parte degli esseri umani, limitati ora nei loro spostamenti, l’esperienza più “normale” è all’insegna della totale schizofonia, la separazione tra il suono originale e la sua fonte. Ma non è una grossa novità: oltre un secolo di musica registrata hanno allenato l’orecchio a tale scopo.

Il mondo durante e dopo la pandemia continua a essere pieno di musica, pur nella difficoltà nel farla in spazi fisici condivisi.

Da un lato, la situazione costringe – finalmente – a un radicale ripensamento dell’istituto del diritto d’autore, nel tentativo di amministrare più equamente i diritti connessi per sostenere chi produce contenuti. Dall’altro, questa azione avviene (ancora) in un contesto di capitalismo selvaggio, e non può che – almeno inizialmente – allargare la forbice tra i “grandi nomi” (le star da milioni di views) e la “coda lunga” di musicisti medio-piccoli, in un momento in cui il sostegno dello Stato è limitato dagli effetti della crisi economica.

Il mondo dopo la pandemia sembra tornare verso a una diffusione più orizzontale del fare musica.

Nel giro di qualche anno si ridefinisce la professione del musicista e il suo ruolo sociale, e molti professionisti cambiano lavoro. Come molti antropologi e musicologi hanno notato, l’idea di una società che opera una netta distinzione tra chi produce musica (e viene pagato) e chi la ascolta (e paga) non è un assoluto culturale, e nelle sue derive più estreme è caratteristica dell’Occidente capitalistico. Il mondo dopo la pandemia sembra, almeno per i primi anni, tornare verso a una diffusione più orizzontale del fare musica. Si suona nelle case, in famiglia (spesso in diretta streaming) per il piacere di farlo, portando a definitivo compimento un processo già avviato alla fine del Novecento, con la crescente disponibilità di tecnologie a basso costo per fare musica e per diffonderla.

Suonare, fuori casa

Il lungo blocco dei concerti porta con sé alcune conseguenze non di poco conto. Prima della pandemia, con la progressiva dematerializzazione della musica e la conseguente ridefinizione dei flussi economici definitisi nel Novecento (durante la breve stagione del disco) buona parte dei musicisti già contava quasi esclusivamente sull’attività dal vivo per garantirsi il sostentamento. Questo era particolarmente vero per quei professionisti (la maggior parte) attivi in generi non sovvenzionati dallo Stato, o non tutelati sindacalmente: i musicisti jazz, i cantautori, i DJ, i membri delle orchestre da ballo, i pianisti di piano bar. Dopo la pandemia, con molti musicisti costretti a svolgere altri lavori o che hanno abbandonato il professionismo, molte cose cambiano. 

Poche multinazionali possono garantire eventi di massa, sempre più costosi, sempre più controllati, sempre meno frequenti.

Intanto, la progressiva riapertura favorisce – paradossalmente – gli eventi piccoli su quelli grandi. Si può far musica all’aperto, in situazioni controllate e non troppo affollate; al chiuso, riducendo drasticamente la capienza delle sale. Gli organizzatori di eventi, che dopo l’inasprirsi delle norme sulla sicurezza (in Italia, in particolare, dopo la tragedia di Piazza San Carlo a Torino nel 2017) avevano visto crescere esponenzialmente i costi di gestione, rinunciano quasi completamente ai grandi concerti in piazza o ai festival: troppo costosi. Anche in questo ambito, come nella musica liquida, si va verso una concentrazione monopolistica ancora più radicale: poche multinazionali possono garantire eventi di massa, sempre più costosi, sempre più controllati, sempre meno frequenti.

È molto difficile scritturare artisti internazionali. Ne beneficiano, per primi, i musicisti locali.

In ogni caso, è molto difficile scritturare artisti internazionali se non si ha una struttura organizzativa ricca. Anche dopo la riapertura delle frontiere, il fallimento di molte compagnie aeree low cost e l’aumento dei prezzi dei voli non facilita certo la circolazione delle persone. Ne beneficiano, per primi, i musicisti locali. Come alla fine degli anni Settanta del Novecento il blocco dei tour internazionali (dopo le violenze al concerto milanese dei Santana nel 1977) si trasformò in un’opportunità per i cantautori italiani, che si spostarono dai teatri agli stadi, in simil modo la lenta riapertura del mercato del live diventa un’opportunità per moltissimi musicisti italiani, chiamati a riempire gli spazi lasciati dagli stranieri.

Certo, se ne avvantaggiano soprattutto i solisti, i piccoli gruppi: quelli che costano poco, che possono muoversi in treno o con una sola macchina, che suonano determinati strumenti (come mantenere il distanziamento sociale su un palco affollato? Possono i trombettisti suonare con la mascherina?). Ma d’altra parte già prima della pandemia i gruppi numerosi erano in difficoltà. Organici stabili più ampi – ad esempio le orchestre – possono sopravvivere solo grazie alle sovvenzioni statali, e riducono di molto la loro attività. 

Ballare

Una delle sfide maggiori nella ricostruzione riguarda le discoteche e le sale da ballo: come immaginare il ballo nell’epoca del non-contatto? Esperimenti surreali con cabine in plexiglass e l’obbligo di misure di sicurezza personali falliscono rapidamente (si può bere un mojito con una mascherina FFP3?); l’attività dei club rallenta inesorabilmente.

Come immaginare il ballo nell’epoca del non-contatto?

Si sviluppa un ricco sottobosco illegale di locali informali, che riprendono la struttura organizzativa dei rave ma la applicano alle diverse comunità di ballerini. Basta un messaggio su gruppo privato Facebook o Whatsapp, e un centinaio di aficionados del liscio si ritrova in uno scantinato di periferia, parcheggiando a distanza la macchina e svicolando per strade laterali per evitare i carabinieri. Anche gli amanti del lindy hop, quelli che negli anni Dieci del duemila frequentavano imitazioni hipster degli speakeasy newyorkesi, riscoprono finalmente l’ebrezza del vero proibizionismo. 

Nascono anche nuovi balli che – in un revival del passato, prima della diffusione globale dei balli di coppia –  non prevedono il contatto tra i ballerini. Si provano a casa, con appositi video di TikTok, e si replicano in flash mob all’aperto (a debita distanza gli uni dagli altri).

Il suono in cui vivremo

Certo, molte delle cose qui narrate assomigliano molto a delle distopie – ma lo sono veramente? Il mondo della musica all'alba del 2019, prima che imparassimo la parola coronavirus, era tutto fuorché un paradiso, una terra di giustizia ed equità. Molte delle cose che si immaginano in questo articolo, in realtà, stavano già accadendo; la pandemia potrebbe accelerarle, portarle alle estreme conseguenze... O forse invece no, tutto cambierà in modi che ora non riusciamo a ancora a immaginare, tutto sarà diverso – non necessariamente meglio o peggio. Musica ce ne sarà, in ogni caso.

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