Il piano cubano

Gonzalo Rubalcaba, a Sacile e al Torino Jazz Fest, racconta Charlie Haden e la libertà della musica cubana

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Prende il via lunedì 18 aprile, la nuova edizione (è la quinta in totale) di Piano Jazz, la rassegna che il Circolo Culturale Controtempo organizza a Sacile (Pn) in collaborazione con la Fazioli Pianoforti (e con il sostegno del MiBACT, della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e il patrocinio della Città di Sacile).

L’onore di aprire la rassegna spetta al pianista cubano Gonzalo Rubalcaba, cui seguiranno Stefano Battaglia, Gerald Clayton e Yaron Herman. Abbiamo colto l’occasione per fare una chiacchierata – ringraziamo Clara Giangaspero per averla favorita – su Charlie Haden, Cuba e molto altro, anche in prospettiva dell’altra data italiana, che il pianista terrà in trio al Torino Jazz Festival.

Mi piacerebbe iniziare questa intervista dalla figura di Charlie Haden, che è stata così importante nella sua vita e nella sua musica. Qual è il primo ricordo che la lega a lui e alla sua musica?
«Il mio rapporto con Charlie è stato entusiasmante: direi che è cominciato prima dal punto di vista umano, per poi diventare anche professionale. Ci siamo conosciuti nel 1986, quando è venuto ad ascoltarmi a un concerto. Io ero già innamorato delle sue performance: adoravo le sue interpretazioni con Keith Jarrett e la Liberation Music Orchestra (che ho sentito live proprio a L'Avana, la prima volta che la band vi fu ospite). Lo sentivo vicino al mio modo di vivere la musica. Quando lo ho incontrato personalmente è stata una specie di immediata affinità, qualcosa di istintivo che ci ha messo subito in sintonia. Da allora il rapporto si è fatto via via più profondo: siamo stati sempre intellettualmente ed emotivamente sinceri, ricchi di confronto e di dialettica, abbiamo condiviso migliaia di esperienze musicali delle più diverse. Charlie amava parlare, conversare, giocare con gli altri: era eccezionale a raccontare le storie, e lo adoravo per questo. Anche da uno spunto insignificante riusciva a restituire un bel racconto, proprio come faceva con le note: aveva un'essenzialità, una densità espressiva che con pochissimo gli permetteva di smuovere emozioni, idee, sogni».



Le ha parlato spesso della sua esperienza con Ornette Coleman?
«Ornette Coleman per Haden costituiva un punto di svolta: ascoltando la sua musica ha modificato la sua poetica. Charlie amava parlare anche di politica, di questioni sociali, di rivoluzione, di umanità e massimi sistemi; i suoi punti di vista erano molto forti, ma aveva il pregio di ascoltare e rispettare quelli degli altri, mettendosi in discussione. Aveva un forte concetto di "spazio" nel confronto: sapeva rispettare quello degli altri e allo stesso tempo faceva rispettare il proprio. In qualche modo Ornette rappresentava anche questo approccio concettuale: Coleman era un artista chiuso, riservato, non parlava molto ma lasciava tutti i suoi messaggi alla musica; in essa era ribelle, diverso, rivoluzionario e provocatore e in fondo lo stesso si può dire di Charlie, del suo modo di vivere tout court – e non solo della sua musica. Per questo la corrispondenza tra loro era perfetta».

Quando Haden l'ha guidata nel trovare un pubblico fuori da Cuba, il momento era ancora difficile in termini diplomatici. Cosa pensa dell'attuale disgelo tra Cuba e gli States? Servirà a far conoscere più artisti cubani nel mondo?
«La musica di Cuba in realtà è nota più o meno ovunque già dagli ultimi decenni, anche a prescindere dagli equilibri politici e diplomatici. È fortissima di per sé, ha un'essenza formidabile ed è storicamente un'espressione così vivace, ricca, creativa, indipendente che difficilmente sopporta confini. Questa è sempre stata una grande forza dell'espressione artistica cubana. Certo, dal lato commerciale le difficoltà sono state e sono ancora molte: l'"isolamento" di Cuba dagli Usa - e anche dal resto del mondo - ha ridotto di molto la possibilità che la musica cubana scalasse le classifiche, o fosse al top dei gusti musicali del mondo intero. Ma si tratta solo di punti di vista diversi: basta intendersi se si vuole parlare di quantità o di qualità. La musica cubana esiste come "conseguenza" della gente di Cuba: il nostro è un popolo reattivo, che non sta fermo, che reagisce sempre e in positivo, che si muove.
Cuba è da sempre meta di molti incontri, a tutti i livelli; da noi sono passati spagnoli, francesi, italiani, ma anche ebrei, russi e – negli ultimi decenni - molti flussi dai paesi dell'Europa dell'Est... abbiamo tantissime relazioni con gente diversa e lontana, senza contare quelle abituali con il resto del Centro America e con gli Stati Uniti. La cosa davvero eccezionale di Cuba è che la sua gente rimane sempre positiva, aperta alla collaborazione e all'incontro, accoglie le persone – così come la musica – rispettandole, senza sentirsi messa in pericolo, senza vedere il nuovo come un nemico, piuttosto come una risorsa dalla quale imparare. La musica ha sempre funzionato, e tutt'ora funziona, così: ha colto le influenze esterne e le ha rese produttive all'interno del proprio linguaggio, le ha introiettate per rendere migliore la propria espressione. Lo stesso Obama, recentemente approdato a Cuba, ha fatto notare questa capacità del popolo cubano, parlando di "positiva determinazione". Certo, i tempi non sono sempre quelli che si vorrebbero: la trasformazione in realtà (sia sociale che artistica) è un procedimento lento, perché richiede che tutto il popolo vi partecipi e ne sia consapevole».

Il pianoforte è sempre stato uno strumento associato ai musicisti cubani: ho trovato, negli ultimi anni, molto interessanti Aruan Ortiz e David Virelles. Cosa pensa di loro? Qualche nome delle giovani generazioni di jazzisti sul quale scommetterebbe?
«Ci sono tantissimi giovani promettenti da non poterli contare; sono molte le nuove generazioni a Cuba che continuano la ricerca, proprio nel senso in cui l'abbiamo appena definita: che cercano la trasformazione, la contaminazione intelligente e personale. Ne parlavo ieri alle prove con i Volcan, proprio con Horacio El Negro: oggi, tra l'altro, i ragazzi hanno anche delle prospettive diverse, hanno più facilità a muoversi.
Ci sono molti sassofonisti e percussionisti emergenti di grande bravura; quanto ai pianisti, sottoscrivo che Ortiz e Virelles sono bravissimi, ma anche Alfredo Rodriguez e Harold López-Nussa... ma sono davvero tantissimi e non voglio inciampare in degli elenchi con il rischio, poi, di far torto a qualcuno! Molti studiano ancora a Cuba, altri si sono già spostati (a Berkeley o in altre università americane) benché molto giovani; e non scordiamo Omar Sosa, certo non giovanissimo, ma che sta mantenendo altissimo il suo livello, anche insegnando in masterclass e corsi universitari. Con me, ad esempio, all'Università lavora Dafnis Prieto, un batterista molto bravo. Riflettendoci, in effetti, credo che ancora oggi non molti dei giovani musicisti rimangano a Cuba per approfondire la loro preparazione: forse – con l'attuale apertura – nei prossimi decenni questa "migrazione" potrà calmarsi, ma oggi è ancora così».



Veniamo al suo tour: suonerà a Sacile in piano solo e a Torino con il Volcan Trio: che repertorio presenterà al pubblico italiano?
«Le due tappe italiane sono parte di un tour di una quindicina di giorni in tutta Europa: tra il 14 aprile e i primi di maggio sarò in Ungheria, in Polonia, in Svizzera, in Belgio e in Georgia. Tutta la prima parte è dedicata al piano solo e credo che i brani saranno una combinazione tra le tracce di Fé-Faith, alcuni brani di Charlie Haden e altri pezzi cui sono molto affezionato del mio vecchio repertorio. Ma la scaletta definitiva è una cosa dell'ultimo momento; di solito la decido quando provo il pianoforte e faccio il soundcheck. Dipende molto dal tipo di sala, dall'acustica, dalle vibrazioni che percepisco dall'ambiente...
Il trio dei Volcan, invece, riprende lo stesso repertorio del quartetto, molto incentrato sul Sudamerica».



Tre dischi di jazz classico o cubano che porterebbe su un'isola deserta?
«Che domanda difficilissima! Ok, metto alla prova la mia pessima memoria con i nomi....
Peruchin, un pianista cubano vissuto intorno agli anni Quaranta è tra i miei autori preferiti perché fa delle scelte armoniche rispetto alle sonorità cubane che trovo strabilianti. Ecco, di lui porterei con me Piano con Moña. Difficile tradurre il titolo "moña", nel nostro spagnolo è una parola molto usata e non ben definibile: significa qualcosa di espressivo, colorato e in questo caso richiama il concetto della contaminazione, dell'incrocio delle influenze di diversi panorami musicali...
Il secondo disco che porterei è El rey del Bolero di Beny Moré, anche lui attivo attorno agli anni Quaranta: un album bellissimo, che ha fatto storia a Cuba, come tutti gli altri lavori di Moré: ogni volta che faceva uscire un album, almeno tre delle sue canzoni erano subito in cima alle classifiche!
Infine "Tangá" di Mario Bauzá (è una canzone di sicuro, che forse corrisponde anche al titolo di un album). Bauzá è un vero pioniere, ha scritto l'incipit di tutto quel mondo che è il jazz cubano prima, latino poi. All'inizio del ventesimo secolo andò negli States e collaborò con tantissime big band americane dell'epoca, facendo proprie molte delle cifre stilistiche e fondendole con i ritmi latini: ecco come nacque il jazz afro-cubano! Ha suonato anche con Cab Calloway già a partire dalla fine negli anni Trenta e ha sedotto e convinto con le sue innovazioni nomi come Charlie Parker e Dizzy Gillespie».

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