Franco D'Andrea e Thelonious Monk

Un estratto da Franco D'Andrea. Un ritratto di Flavio Caprera, biografia del pianista appena pubblicata da EDT

Franco D'andrea un ritratto Flavio Caprera
Franco D'Andrea (© Fondazione Musica per Roma - Musacchio & Ianniello)
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Pubblichiamo un estratto da Franco D'Andrea. Un ritratto di Flavio Caprera, biografia del pianista appena pubblicata da EDT, per gli ottant'anni di D'Andrea.

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Franco D'andrea un ritratto Flavio Caprera EDT

In quel periodo Rava, appassionatosi alla musica di Thelonious Monk, invita D’Andrea a inoltrarsi in quel mondo fatto di note misteriose, umbratili, a volte astratte e spigolose. D’Andrea non aveva mai approfondito Monk, che pure aveva sentito in concerto a Milano nei primi anni Settanta con i Jazz Giants (Monk, Dizzy Gillespie, Kai Winding, Sonny Stitt, Al McKibbon e Art Blakey), restandone impressionato. 

D’Andrea s’inoltra dunque in quella selva selvaggia e meravigliosa che è la musica di Monk: la studia a fondo, ne carpisce i segreti, fa proprio l’aspetto percussivo del pianismo di Monk e ne estremizza l’uso, migliora e rende più duttile e luminoso il suo tocco, variando l’attacco del tasto a seconda del ritmo e della temperie sonora. Su Monk, D’Andrea ha avuto da dire in un’intervista del 2019 a Allaboutjazz: «Molto tardivamente mi sono accorto di Thelonious Monk e me ne faccio una colpa enorme, è stato negli anni Ottanta».

Inoltre D’Andrea in questo periodo rivaluta una parte di storia del jazz che aveva trascurato, quella dei primordi: si rende conto che la sua idea di musica non può fare a meno della tradizione. «Nel frattempo io stavo già maturando una rivisitazione del jazz tradizionale sul pianoforte, strumento che non avevo mai suonato in quello stile: io avevo suonato la cornetta, il clarinetto e poi basta, e Monk in questo senso aiutava molto ad arrivare anche da quella parte, perché in realtà i pezzi di Enrico erano gioiosi, molto comunicativi, avevano anche a che vedere con Monk, ma un Monk molto solare; quindi, in qualche maniera, mi sono accorto che Monk esisteva anche per me; sapevo bene chi fosse, ma non era ancora entrato nella mia sfera come pianista. Da quel momento ho cominciato lentamente a maturare una passione per questo personaggio unico nella storia del jazz, che guardava indietro, guardava intorno a sé, guardava avanti, guardava dappertutto. Aveva preso di qua e di là e aveva sintetizzato, cosa quasi unica nella storia del jazz. Forse anche Jaki Byard fu un po’ così, in senso pianistico. Monk fu anche un grande compositore. Nella sua musica c’era un profumo di jazz tradizionale, addirittura di Swing era, certi riff rimandano quell’epoca. Ho cominciato ad andare in quella direzione e mi sono ritrovato a esplorare il registro del pianoforte dove Monk era maestro, quello medio-basso». 

Prima di Monk c’era stato Jelly Roll Morton. Il pianista, compositore, arrangiatore di New Orleans aveva una tecnica che gli permetteva un approccio orchestrale al pianoforte e una visione d’insieme da vero direttore d’orchestra, alla guida dei suoi Red Hot Peppers. Morton poteva essere un ulteriore riferimento per D’Andrea, che anni dopo userà nei suoi gruppi clarinetto, tromba, cornetta e trombone, affiancati al contrabbasso e alla batteria, o anche solo al pianoforte.

«Jelly Roll Morton, per me, era meno, rispetto a Monk. Non ho mai avuto molta simpatia per personaggi troppo egocentrici».

Ma il pianista di Merano ci tiene a precisare le sue idee a proposito e rimarcare le influenze assorbite: «Jelly Roll Morton, per me, era meno, rispetto a Monk. Non ho mai avuto molta simpatia per personaggi troppo egocentrici. Jelly Roll lo mettevo in quella categoria, non mi stava tanto simpatico, a pelle. Riconoscevo che fosse un musicista eccezionale ma non mi dava emozioni così forti a causa di questo giudizio, o pregiudizio, in base a ciò che mi era arrivato dalla storia. Un personaggio un po’ troppo accentratore, prepotente e cattivello. Insomma, Louis Armstrong mi era più simpatico o anche Bix Beiderbecke, personaggi più dolci, meno aggressivi. Jelly Roll mi dava l’idea di essere un rampante spaventoso. Monk era un personaggio assolutamente disarmante perché aveva questo aspetto un po’ naïf anche se solo in apparenza, poiché in realtà non lo era affatto. A un certo punto della mia vita ho detto: “Ogni tanto metto su Monk, perché quando lo ascolto sono tranquillo. Faccio le mie cose. So che lì c’è uno zio benefico che mi ha permesso di fare tante cose e che non la mette giù dura. Non ha bisogno di fare il ‘superman’”. Monk simboleggia va tutta una serie di cose che mi comunicavano un senso positivo. Monk è stato un musicista che ha abitato la mia mente e il mio cuore e continuerà ad alloggiarvi per sempre. Quando vado in macchina in montagna con mia moglie, uno dei dischi che mettiamo è Page One di Joe Henderson, che fluisce particolarmente bene, e poi mettiamo Monk, il disco che fece in trio con Kenny Clarke e Oscar Pettiford dedicato alla musica di Duke Ellington: fa delle cose semplici e funziona tutto benissimo, ma nello stesso tempo non è aggressivo. È fantastico!». 

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