Come suona Clandestino di Manu Chao vent'anni dopo?

Torna in ristampa il capolavoro di Manu Chao, con tre inediti: e la sorpresa è che è invecchiato benissimo

Manu Chao - Clandestino, ristampa
Manu Chao (foto di Klelia Renesi)
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Il negozietto di roba fricchettona in via Po, qui a Torino, sta chiudendo: era un classico della fine degli anni Novanta-primi Duemila, un po’ come Manu Chao.

Clandestino, come succede con tutti i classici, ha compiuto vent’anni l’anno scorso senza che quasi ce ne rendessimo conto (fu pubblicato il 6 ottobre del 1998), e ora esce in versione ristampata in cd o tre vinili, con un paio di inediti. 

Comunque, a differenza degli accessori sgargianti per fumare l’erba (usereste oggi un bong arancione catarifrangente alto un metro e mezzo?), dei pantaloni bracaloni di canapa, dei berretti inca e delle camicie alle coreana dalle fantasie improbabili, Clandestino è invecchiato decisamente meglio.

È affascinante riascoltarlo oggi a distanza di più di vent’anni, potendo mettere in prospettiva quella patina di (no)globalismo freak che tanto andava a cavallo dei due millenni, e che ha fatto di Manu Chao e del suo debutto una delle colonne sonore di manifestazioni pacifiste e feste della sinistra studentesca, insieme a cose come Modena City Ramblers e vari gruppi ska oggi opportunamente dimenticati.

La sorpresa è che Clandestino suona ancora benissimo.

La sorpresa è che Clandestino suona ancora benissimo, forse meglio di allora: è datato, certo, ma allo stesso è fuori dal tempo, con la sua parata di chitarrini in levare, ottoni filtrati in lontananza e striature elettroniche. Manu Chao lo compose – come esige l’aspetto romantico del suo personaggio – dopo aver archiviato l’avventura dei Mano Negra, durante un lungo viaggio di formazione in America Latina, alla ricerca di se stesso, a contatto con gli ultimi, le periferie del mondo, bla bla bla. L’assenza quasi totale di ritmiche sarebbe dovuta (sempre secondo la vulgata) a un incidente di percorso: un computer (ve li ricordate i computer della fine degli anni Novanta?) che crasha e cancella tutte le parti.

Clandestino è una specie di manifesto dello home recording digitale ai suoi albori.

È un aneddoto che – vero o no – spiega qualcosa di quel disco, che in effetti racconta qualcosa del fare dischi alla fine dei Novanta. Ed è quello che più colpisce a riascoltare oggi Clandestino. È un disco acustico, ma allo stesso tempo è una specie di manifesto dello home recording digitale ai suoi albori, di una piccola grande rivoluzione nel fare musica. Gli arrangiamenti si costruiscono a strati, uno sull’altro, sovrapponendo i loop dei diversi strumenti: un’arte che – ha spiegato molto bene David Byrne in Come funziona la musica – ha avuto i suoi profeti nei Talking Heads, e in cui Manu Chao si è dimostrato un vero maestro. Si accende la traccia del charango, entra un riff di chitarra elettrica, esce la chitarra, entra un sample di ottoni, entra una figura di organo elettrico in levare, entra un suono di sonar ogni due battute (ve lo ricordate “Bongo bong”?).

Il groove di Clandestino, che ancora oggi fa muovere la testa mentre si ascolta, è tutto costruito così.Forse è anche per questo che è invecchiato così bene: prelude al suono a cui oggi siamo abituati, a come nel nuovo millennio è stata costruita molta della musica che gira in radio – ad esempio, molto rap, reguetón, cumbia…

Quel sound unico e riconoscibile in due secondi Manu Chao lo ha disseminata in molte delle sue produzione e collaborazioni successive, pur senza la novità che ebbe in Clandestino: riascoltatevi Amadou et Mariam, o “Le vent nous portera” dei Noir Désir. C’è da dire, a suo merito, che non ne ha abusato troppo: l’ultimo lavoro di studio prodotto a suo nome risale ormai al 2007, La radiolina. Anche così – evitando di sporcarne il ricordo con prodotti mediocri – si crea il mito di un disco e di un artista.

La nuova edizione di Clandestino si intitola Clandestino - Bloody Border. Contiene tre inediti: la garrula “Bloody Border”, che parla della condizione di migranti tra Messico e Usa; “Roadies Rules”, uno scarto della lavorazione dell’album originale; e una nuova versione della title track, con la voce di Calypso Rose, con cui Manu Chao ha recentemente collaborato come produttore.

Niente che aggiunga o tolga nulla a un disco che ha retto benissimo alla prova del tempo, e che forse al momento dell’uscita abbiamo pure sottovalutato, vestito com’era di pantaloni di canapa e camicie dalle fantasie improbabili.

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