Coleman, Berne, Sorey classici contemporanei

Tre nuovi dischi per raccontare la centralità del lavoro compositivo nel jazz di oggi

Steve Coleman
Steve Coleman
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La centralità del (e la varietà di approccio nel) lavoro compositivo nel jazz dei nostri giorni trova nei recenti dischi di Steve Coleman, Tyshawn Sorey e Tim Berne tre esiti di grande valore.

Pubblicati dalla PI Recordings sia Morphogenesis che Verisimilitude (questi i rispettivi titoli dei dischi di Coleman e Sorey), mentre Berne e i suoi Snakeoil continuano il felice sodalizio con la ECM con Incidentals, questi lavori ci pongono infatti di fronte a un segno autoriale molto preciso e in grado di dare forza coesiva alla musica, a una concezione del momento creativo in cui lo spazio riservato all’improvvisazione viene plasmato da idee formali precise.

Non è questa ovviamente una novità, certamente non per artisti come Steve Coleman o Tim Berne, che sono ormai da decenni tra i musicisti più importanti della scena afroamericana e creativa newyorkese, forse due dei pochi cui si possa davvero attribuire (pur nel mutato contesto sociologico e culturale di ricezione del jazz) l’onore dell’eredità perduta dei “giganti” di questa musica. Non lo è nemmeno per Sorey, sebbene generazionalmente più giovane, musicista che alla formidabile e riconosciuta attività come batterista, affianca da anni un severo lavoro nella composizione.

Ma credo che questi tre recentissimi dischi, oltre a essere tra le uscite più imprescindibili dell’anno, raccontino con grande efficacia quanto avere delle idee chiare e definite dal punto di vista compositivo/formale si rifletta nella forza poi dell’esito, in certi contesti ben di più che non quando si parte solo da una generica “ispirazione” musicale, quasi che la musa debba sempre e solo rispondere a se stessa.

Steve Coleman è un maestro in questo: in Morphogenesis trae spunto da alcuni movimenti della boxe (passione che condivide con colleghi di ieri e di oggi come Miles Davis o Matthew Shipp), che sono stati visualizzati e poi orchestrati per un organico particolarmente interessante, che affianca a partner abituali come il trombettista Jonathan Finlayson o Jen Shyu alla voce, il sax tenore di Maria Grand, il pianoforte di Matt Mitchell e l’apporto di quattro musicisti di estrazione classica a clarinetto, contrabbasso, violino e percussioni.

Già, manca la batteria, elemento solitamente centrale nel discorso di Coleman, ma il dinamismo ritmico è comunque marcato, sostenuto da una tensione continua tra gli elementi melodico/armonici e dall’uso intelligentissimo dei timbri a disposizione. In questo senso, in una sorta di camerismo nervoso e magmatico, sia la voce della Shyu che gli archi si fondono in modo del tutto naturale, a volte assecondando la melodia, altre volte contrappuntando o lavorando su masse armoniche.

Da questo tessuto emergono i momenti solistici migliori, con un Finlayson sempre più essenziale e un Matt Mitchell semplicemente strepitoso (l’assolo su “Pull Counter” è baciato dalla grazia). Ma anche in temi dalla natura più atmosferica e tessiturale come “Noh” il rapporto tra insieme e singoli è stordente, sempre prismatico.

A questo affresco ricco di sfaccettature è facile abbandonarsi, giungendo in uno stato quasi onirico alle due spettacolari tracce conclusive, “Dancing and Jabbing” e “Horda”, musica che è conversazione e movimento fisico, canto e segmento, respiro e colore.

Il lavoro di Tyshawn Sorey, Verisimilitude, si muove invece su un terreno in cui – come ci ricorda lo stesso batterista e compositore in un’intervista – la stessa idea di cosa sia composto e cosa improvvisato è poco utile. Agendo dall’interno di una formazione abusata e spesso stereotipata come il trio con pianoforte, grazie anche alla telepatica complicità di Corey Smythe al piano e elettronica e di Chris Tordini al contrabbasso, Sorey costruisce, ispira, evoca un mondo sonoro lento e scuro, che rifugge dall’idiomaticità sia del jazz che della contemporanea per consentire una continua ricombinazione di gesti, tessiture, timbri, moduli.

Elogio della lentezza, ma prima ancora elogio delle possibilità ricombinative degli elementi, il disco – che dopo l’iniziale, breve, “Cascade in Slow Motion” si caratterizza per lunghe arcate espressive, giungendo nei casi dell’inquetante “Obsidian” o di “Algid November” a brani che durano ben oltre i 15 minuti – è un vero gioiello di introspezione, ma si farebbe un torto alla ricchezza del mondo sonoro di Sorey se lo si riconducesse, anche solo per questioni di praticità definitoria, alla sua dimensione pensosa e severa.

Si tratta infatti di una musica di qualità davvero unica (di quelle che dovrebbero interessare i direttori artistici dei festival di contemporanea, se solo taluni di essi fossero a conoscenza di qualcosa che va al di là del proprio asfittico orticello accademico), in cui tutti i parametri sono dotati di una mobilità multidimensionale che la sensibilità dei singoli componenti del trio rende ancora più imprevedibile. Non è un ascolto facile, ma è un’esperienza che ripaga sotto ogni forma.

Venendo poi al nuovo lavoro di Tim Berne con gli Snakeoil, Incidentals, assistiamo qui alla rifinitura, ulteriore e preziosissima, di un processo creativo che porta da un lato le inconfondibili tracce dei fondamentali del linguaggio del sassofonista – temi nervosi, una funkyness di matrice urbana stratificata – mentre dall’altro allarga questo universo a ipotesi soniche sempre più ampie.

Non è un caso che qui, oltre ai fedeli Oscar Noriega (clarinetti), Ches Smith (batteria) e Matt Mitchell (anche in questa occasione eccellente al pianoforte), il tessuto timbrico si estenda grazie alla chitarra di Ryan Ferreira – già presente nel precedente lavoro – e agli interventi in due occasioni di David Torn, sempre alla chitarra.

Anche nel caso di Berne la forza del processo di scrittura e di interazione tra i vari elementi è la chiave per una musica di straordinaria tridimensionalità, in cui le relazioni interne e quelle che si creano con chi ascolta sembrano moltiplicarsi all’interno di una narrazione non solo esteticamente felicissima, ma anche potentemente figlia dei tempi, di una linearità sfaccettata e ricomponibile. Inquieto e elettrico, un Berne che ridefinisce il proprio concetto di maturità.

Tre maestri che non tradiscono. Tre dischi da avere.

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