Acchiappashpirt, la poesia sonora abbatte i confini

GeneratA racconta fra trap e spoken poetry l'Albania di oggi: intervista a Jonida Prifti e Stefano Di Trapani, alias Acchiappashpirt

Acchiappashpirt
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Il duo Acchiappashpirt si muove da ormai un decennio nell’ambito della poesia sonora: la performer e poetessa albanese Jonida Prifti e il musicista romano Stefano Di Trapani (anche apprezzata firma musicale) miscelano in questo progetto sonorità contemporanee, elettronica, noise e poesia d’avanguardia.

Il loro lavoro più recente, GeneratA, è un progetto ispirato al lavoro del fotografo d'arte Julius Eb e ha come tema la nuova generazione albanese, figlia della ricostruzione in atto. Colonialismo, amore del nuovo secolo, urbanizzazione improvvisa, disagio giovanile, sono solo alcuni dei temi del disco, un lavoro dalle sonorità dense e inquiete, inatteso ponte tra un linguaggio comunque stratificato di avanguardie e l’impatto sonico degli esiti elettronici più recenti.

Ci è sembrata l’occasione per fare una lunga chiacchierata con i due Acchiappashpirt.

Acchiappashpirt

ll disco uscito da poco, GeneratA, è un lavoro che ci offre più di uno spunto, per cui procederei con ordine, incominciando chiedendo a te e a Jonida come nasce il disco e l’attenzione – che è centrale – alla nuova generazione albanese e all’idea di ricostruzione.

STEFANO DI TRAPANI: «Lo spunto per registrare GeneratA è apparso magicamente quando ci siamo ritrovati alla mostra di Julius Eb nella galleria nazionale d’arte a Tirana, l’anno scorso.  Eravamo li per partecipare con un progetto multimediale (Radioanarti, insieme al pittore Nicola Rotiroti e all’attrice Valentina Di Odoardo) alla Biennale dei giovani artisti - Mediterranea, e durante le pause di lavoro, per curiosità, ci siamo accostati ai suoi lavori e siamo rimasti colpiti dalle sue fotografie d’arte e dal concept che c’era dietro: ovvero analizzare tramite immagini la nuova generazione albanese, figlia del post dittatura comunista di Hoxha, che cerca di uscire da una situazione economica e psicologica difficilissima. Rimboccandosi le maniche, con tutte le contraddizioni del caso e la voglia fortissima di riprendersi un posto nel mondo trainata da un altrettanto forte desiderio di riscatto». 

JONIDA PRIFTI: «Le foto erano talmente acide, psichedeliche ed emotivamente calzanti con la situazione che si vive a Tirana che  eravamo convinti fosse albanese anche lui, invece è un tedesco che vive tra la Germania e gli Stati Uniti. A quel punto ci siamo dati appuntamento in un caffè e abbiamo parlato del progetto, e dell’idea di farne una versione “poetico sonora”. È stato gentilissimo e superdisponibile, ha curato infatti anche la cover art sotto nostre indicazioni (l’idea di un “fidget spinner” umano, oggetto totem dei ragazzini e simbolo dell’inquietudine giovanile) e ci ha dato via libera per la nostra personale interpretazione della materia esposta: volevamo fosse una specie di colonna sonora delle sue immagini. Ci ha veramente ispirato, anche perché appunto la situazione giovanile albanese rappresenta una versione “accelerata” di quello che sta succedendo alle nuove generazioni di tutto il mondo. Crollano vecchi valori, si cerca di tirare su qualcosa su basi diverse anche se queste basi sono ancora un salto nel vuoto e c’è il rischio di cadere dalla padella nella brace. GeneratA vuole rappresentare tutto questo vissuto, che non è – lo ripetiamo – limitato alla situazione albanese. Ma la situazione albanese è sicuramente un’importante cartina al tornasole per capire meglio tutto il resto, tutta l’economia e la politica che tenta di schiacciarci in ogni punto cardinale della terra».

È in parte curioso che – perlomeno a me pare che per molti sia così – la consapevolezza della progressiva ricostruzione e inclusione Europea dell’Est Europa e la forse inattesa pericolante condizione dell’Europa stessa si incrocino in una sorta di dissolvenza incrociata… no?

DI TRAPANI: «In parte sì, ma non la chiamerei tanto dissolvenza incrociata quanto passaggio di testimone. È una sorta di rivincita che nasconde però delle insidie ed è nei migliori dei casi di facciata, perché è indubbio che l’Est potrebbe dare di più se ci fosse un vero equilibrio tra chi se ne va dai paesi di origine e chi vi ritorna: la comunità europea offre infatti, paradossalmente, una sorta di stabilità rispetto alle situazioni di partenza, ma anche il rischio di una fuga di cervelli senza precedenti e di un collasso imminente su larga scala. Sicuramente si aprono delle prospettive inedite che nascono appunto da questa fretta di recuperare il tempo perduto, prospettive che si barcamenano tra il distopico e l’utopico, tra l’ennesimo sfruttamento di risorse conto terzi e l’effettiva possibilità di un futuro da protagonisti assoluti. È in questa crepa, in questo caos che per costruire deve distruggere il già distrutto che si situa GeneratA».

«È un po’ un sonogramma psicologico della faccenda, è una specie di trascrizione sonora di una scossa tellurica le cui conseguenze sono difficili da prevedere».

PRIFTI: «È un po’ un sonogramma psicologico della faccenda, è una specie di trascrizione sonora di una scossa tellurica le cui conseguenze sono difficili da prevedere. Per questo GeneratA è anche un po’ cercare di vaticinare nel presente, entrando in una trance tecno-utopista seguendo la tradizione pagano/primitiva del paese. In questo caso il tramite sono i testi poetici che non è essenziale che vengano tradotti in inglese perché devono arrivare alle orecchie come “gesti” sonori, devono evocare. L’albanese e l’italiano sono in qualche modo due facce di una stessa medaglia, da questo punto di vista: e non solo da questo».

Presentando il lavoro sottolineate quanto le generazioni sembrino continuamente ripartire da zero. A me a volte sembra che addirittura si siano stancati dell’idea di ripartire, che ne pensate?

PRIFTI: «In realtà l’esatta presentazione del lavoro sottolinea “il sentimento di dover ricostruire costantemente da zero”. Il che non vuol dire poi ricostruire per forza, ma ricostruirsi sicuramente sì. Soprattutto in Albania dopo anni e anni di isolamento costretti in un regime brutale, il bruco deve diventare farfalla altrimenti muore calpestato da pesanti scarpe. Per cui che il modello sia quello di fare i soldi a tutti i costi, che sia quello di lasciare il paese e le sue micragne per appunto ricominciare  altrove da clandestini o meno, oppure resistere in loco per creare un humus culturale moderno sulle basi di un patrimonio artistico innegabile, c’è comunque dietro un buco nero da riempire». 

DI TRAPANI: Mi pare che comunque anche le recenti tendenze giovanili mondiali si basino su questo problema, Italia in primis, su questo sentire una crisi dalla quale è necessario uscire fuori in un modo o nell’altro, anche azzerandosi nel nichilismo, imbottendosi di psicofarmaci, certo: al di là delle ovvie considerazioni etiche e morali è un tentativo di resistere. È una cosa che ogni generazione ha vissuto, d’altronde: il sentimento di stancarsi di ripartire. Lo dicevano addirittura i Rokes in “È la pioggia che va”: i giovani “sono stanchi di lottare e non credono più a niente proprio adesso che la meta è qui vicino”. Però le cose cambiano comunque, quindi stanchi o no nel fiume tocca nuotare, è automatico. Se si vuole affogare, comunque lui ti porta da qualche parte. Ed è in quel momento che il cambiamento diventa reale e si può tenere il coltello dalla parte del manico… qui sta il punto. Uscire dal gorgo entrandoci in pieno».

Come si inserisce questo lavoro, parlo proprio artisticamente, nel percorso di Acchiappashpirt, che ormai compie la fanciullesca quanto ragguardevole età di 10 anni?

DI TRAPANI : «Si inserisce in un modus operandi più “ascoltabile”, ovviamente tra virgolette… Ma rispetto ai precedenti lavori molto più “noiseggianti” e “abrasivi” ci sembra che la via intrapresa sia quella di una maggiore comprensibilità nell’incomprensibile. Usando dei mezzi che anche un orecchio non educato può comprendere perché appunto abbastanza di massa, ma ribaltandoli in maniera che il significante arriva prima del significato e lo veicola. Probabilmente in GeneratA abbiamo trovato una quadratura di cerchio per cui potremmo suonarlo anche nei centri commerciali e la gente lo ascolterebbe come minimo incuriosita. Che poi è quello a cui, oggi come oggi, puntiamo. D’altronde questi dieci anni mi sembrano un minuto, non abbiamo mai fatto una cosa uguale all’altra».

acchiappashpirt

L’idea di unire la poesia sonora alla trap che tipo di problemi ha comportato dal punto di vista espressivo?

DI TRAPANI: «Direi nessuno: alla fine usiamo alcune delle peculiarità sonoro-stilistiche della trap (come ad esempio l’autotune e i sub-bassi usati ritmicamente, nel nostro caso come “piedi” poetici) e le pieghiamo alla nostra visione della poesia sonora, non il contrario. Ragion per cui è stato uno sperimentare sulla “costruzione” di qualcosa dalle macerie di un’altra, in questo caso i luoghi comuni della trap (e poi l’autotune in fondo è usato massicciamente anche e soprattutto nel pop, per cui…).
Che comunque, nei casi della trap di qualità, fa ampia sperimentazione linguistica tra gerghi, nonsense, neologismi, flussi di coscienza drogati, fratture metriche (basti pensare al mumble, che alla fine è proprio la vittoria del suono sul significato) che però in quel caso hanno intenzione “musicale”  e nel nostro caso a tutto si pensa fuorché alla musica se non nel senso della “musicalità della phonè”. Tra l’altro se ascolti bene, oltre ovviamente al noise e all’ elettronica sperimentale, ci sono anche delle strizzatine d’occhio ai suoni HD, al footwork e alla tradizione vocale balcanica, in cui la voce è usata in senso ritmico/lirico con una forte connotazione poetico drammatica che però è interna al verso, non esterna. E tra l’altro il disco è improvvisato da cima a fondo, di scritto ci sono solo le poesie».

PRIFTI: «I testi albanesi li ho scritti appena tornata a Roma, tenendo ben chiaro in mente il ritmo delle parole, realizzando poi il tutto in un battito di ciglia durante la registrazione. I miei testi poetici parlano di catturare quelle sensazioni che rimandano al passato per proiettarle nel futuro, perché ogni generazione guarda indietro nel tentativo di superare la precedente. Quelli in italiano sono di SDT e descrivono invece un vissuto urbano di confusione esistenziale che diventa quasi simbiotico con l’individuo che lo abita. Per cui ecco, non di sola trap vive l’uomo anche perché quasi tutti oggi vogliono misurarsi con questo genere: noi no, non facciamo e non vogliamo fare ovviamente trap, sarebbe stupido. Vogliamo fare altro modellandolo come ci pare e piace finché non assume una forma che sia la nostra e che in qualche modo sovverta quello che sta diventando, ahimè, uno dei sound più conservatori di sempre nonostante le sue radici, almeno per quanto riguarda l’Italia».

Al di là dell’evidente pervasività nel mondo degli ascoltatori più giovani, qual è il vostro punto di vista sulla trap di casa nostra, sull’aspetto lirico e metrico, sulla maggiore o minore incisività e onestà dei temi trattati, che artisti vi piacciono e quali non vi convincono?

DI TRAPANI: «Mah, la trap in sé non è poi questo genere così giovane, risale alla fine degli anni novanta… c’è probabilmente un equivoco nel vederla come “musica dei giovani” solo perché si è imposta sul mercato recentemente. Posso parlare della trap italiana, Jonida di quella albanese: ci sono delle differenze secondo me molto evidenti. Quella italiana mi sembra troppo soft, troppo da poser: io preferisco quella americana di gran lunga, come Lil Yachti, Lil Xan, e in questo periodo soprattutto Playboi Carti, il quale per me ha una marcia in più sia musicalmente che foneticamente. In generale trovo che quella americana abbia “il blues”, si sentono le radici black alla grande, è roba che ha dentro un bel po’ di vissuto di strada veramente hardcore che gli dà uno smalto diverso, basti sentire il seminale Future e il suo modo di trattare l’autotune, quasi uno scolpire la parola. In Italia questo manca nell’80 per cento dei casi secondo me. Ad ogni modo in Italia mi piacciono che so… Tedua, i Tauro Boys, Flu$$ Uchiha, Lil Rumore, anche certe cose di Quentin40 per il modo in cui tronca le parole, M.U.S.O., gli H501 per il loro sostrato “popolare”, OG EASTBULL mi sta molto simpatico come personaggio e devo dire che mi piace molto la scena napoletana, roba tipo i 365 Muv. Ecco, la scena napoletana è forse quella in cui sento maggiormente questo blues, perché tra l’altro l’importanza del dialetto di strada è fondamentale. Poi chiaramente i trapper oggi escono dalla rete come funghi in un prato, ce n’è per tutti i gusti. Quelli che non ci convincono non credo sia il caso di citarli, perché fargli pubblicità?».

«In Albania…beh, dall’albanese “trap” si traduce “coglione” e ogni volta che ne sento parlare mi vien da ridere».

PRIFTI: «In Albania…beh, dall’albanese “trap” si traduce “coglione” e ogni volta che ne sento parlare mi vien da ridere. Comunque di trapper albanesi ce ne sono un bel po’, anche perché stanno tutti belli assatanati e affamati di hit parade,e cercano addirittura di sfidare gli americani sul loro stesso terreno. Ne cito alcuni: Noizy, Blunt&Real, Shaolin Gang, Buta, Blleki...».

E venendo alla poesia, quali le nuove voci che vi colpiscono o con cui c’è un dialogo?

PRIFTI : «La giovane poeta albanese Sonja Azizaj a cui ho tradotto delle poesie per il sito di letteratura Utsanga. Sonja, oltre a scrivere e recitare le  sue poesie, le fa vivere e pulsare nei suoi video poemi. L’altra giovane poetessa albanese che sperimenta con i suoni è Jona Xhepa : da segnalare anche il musicista elettronico Ilir Lluka insieme alla poetessa kosovara Ervina Halili. Per quanto riguarda la sfera italiana invece parlerei del poeta e performer Luca Tedesco il quale nutre il suo progetto solista dal nome Unidentified Flying Poetry – Doppie eliche della scrittura che “come una membrana tra mondi interferenti” viaggia verso approdi sconosciuti della parola. Infine ma non per ultima, Donatella Della Ratta alias Lulu Shamiyya, la poeta e studiosa di media e culture arabe, con cui insieme abbiamo un progetto di poesia sonora/dadaista dal titolo “Alfabeti Barbarici”».

Nel continuo ridefinire gli ambiti (poesia sonora, performance, trap) viene da chiedervi alla fine dove trova collocazione – o forse non ne vuole trovare una – il progetto? Nel senso: l’ambito di fruizione è quello più legato all’arte, quello letterario o quello dei club?

DI TRAPANI : «Aggiungici anche quello dei centri occupati, degli house concert e della strada: ci siamo esibiti pressoché dovunque perché la collocazione della poesia deve essere ovunque, non ci sono nicchie che tengano. L’ambito di fruizione è chiunque ci ascolti, dovunque ci ascolti».

Come reagisce solitamente il pubblico al vostro lavoro? Cosa vi ha sorpreso, in positivo o in negativo, della ricezione del progetto Acchiappashpirt negli anni?

DI TRAPANI : «Beh di base, “reagisce”. Il che è quello che ci poniamo come obiettivo. Far saltare la gente dalle sedie, smuovere determinate rotelle. In generale abbiamo buonissimi feedback, anche da quelli che rimangono “shockati”. Quello che ci ha sorpreso è il fatto che il pubblico sembra capire che dietro non c’è solo un progetto diciamo “artistico” ma due persone in carne ed ossa che portano questa carne e queste ossa in scena. Tant’è che al festival che organizziamo, Poesia carnosa, viene parecchia gente che è cresciuta esponenzialmente di numero nonostante la proposta sia poco ortodossa: vuol dire che il pubblico ha bisogno di perdere vecchie certezze, gli algoritmi alla lunga stancano. Se vado ai reading tradizionali o “ufficiali” le persone sono sempre le solite 20 composte per lo più di addetti ai lavori e gente annoiata il cui rapporto con l’esterno è pari a zero, non ci stancheremo mai di ripeterlo: e questo non fa bene alla poesia e al suo rinnovamento». 

«L’ambito di fruizione è chiunque ci ascolti, dovunque ci ascolti».

«Riguardo l’estero forse siamo recepiti con maggiore facilità, sono più aperti a certe sperimentazioni e sono sinceramente incuriositi dagli idiomi che usiamo. Tra l’altro Tola, la recente cassetta uscita per canti magnetici, è arrivata nella Top 100 di Boomkat nella sezione “classici”, il che è una bella soddisfazione ma è anche divertentissimo perché ci ritroviamo – non si sa per quale motivo – sopra a Charlemagne Palestine! Buffo no?».

Quali sono i prossimi progetti di Acchiappashpirt?

PRIFTI: «A parte continuare a collaborare con Julius per le sue mostre e per i visual live di GeneratA, faremo sicuramente alcune date promozionali in Italia e in Europa prossimamente: anche perché stanno per uscire altri due album uno per la portoghese Baby Yoga, dal titolo Sangue macchiato e un altro per la succitata Canti magnetici, dal titolo Liri SM. Completamente differenti l’uno dall’altro, con dei concept abbastanza importanti… Ma non vogliamo fare spoiler per scaramanzia. Nel frattempo stiamo per registrare un altro disco, che probabilmente sarà il nostro punto di vista disincantato sull’“hyperpop” di oggi, forse virando verso la chiusura del percorso apertosi proprio con GeneratA. Stiamo anche lavorando al sonoro di un documentario dei ragazzi della 148 produzioni, che hanno girato alcuni dei nostri video. E a dicembre ovviamente ci sarà l’edizione di Poesia carnosa, che compie nove anni e anche qui molte sorprese bollono in pentola…».

Consigliate ai nostri lettori tre lavori di poesia sonora più o meno recenti che secondo voi sono imprescindibili?

DI TRAPANI: «La ristampa del Trio Prosodico di Lora Totino, uscita nel 2016 per Holidays, spazza via molta della produzione recente, che a volte si limita a copiare i classici anziché cercare una via originale: ha una forza incredibile, sembra uscito oggi. Per essere validi nel presente bisogna essere soprattutto inattuali, senza tempo. Sicuramente uno dei dischi più importanti recentemente usciti è il VocalStudies 21 di Adam Bohnam, uscito su My Dance the Skull. Aggiungiamo Ú dei portoghesi !CALHAU!, FetishBones di Moor Mother e Anticlines di Lucrecia Dalt, veramente interessanti perché sono evidenti le commistioni poetico vocali sonore, in cui non si capisce dove inizia la musica e dove finisce la poesia. Cosa secondo noi importante oggi in cui il nuovo vento reazionario vuole spingerci a creare frontiere, dighe, confini». 

PRIFTI: «La poesia sonora nasce come arma per abbatterle, e siamo sicuri che prima o poi ce la farà».

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