Le mille sfumature della musica contemporanea
Un percorso (minato) negli ultimi quarant’anni della musica classica contemporanea (o colta contemporanea, o d’arte contemporanea…)
29 ottobre 2025 • 6 minuti di lettura
Facciamo un gioco. Innanzitutto, facciamo finta che ci piaccia incasellare la musica per stili, generi e periodi storici. Fatto questo, ora scegliamo qual è l’ambito di riferimento che ci offre più sfumature, più ambiguità, più possibili/probabili sovrapposizioni, intersezioni, innesti… Ecco, ci siamo: la musica contemporanea, naturalmente.
Prendendo gli ultimi quarant’anni come orizzonte di osservazione, oltre alla consapevolezza di esplorare un terreno minato – disseminato di infide definizioni che segnano il percorso intrapreso con etichette vagamente classiste quali musica “classica contemporanea”, o “colta contemporanea”, o “d’arte contemporanea” e così via – una riflessione sorge spontanea: contemporanea a chi? Contemporanea a cosa? D’accordo, possono apparire domande un poco pretestuose, nei confronti delle quali proviamo a smarcarci rispondendo in maniera tutto sommato convenzionale, vale a dire: contemporanea a chi ascolta e contemporanea ai mezzi/strumenti espressivi disponibili al momento della produzione di tale musica. Completiamo il quadro di partenza considerando anche la cara vecchia tentazione adorniana rappresentata dalla concezione di un ambito musicale concepito quale espressione del fronte più avanzato della produzione musicale odierna – frutto di una tradizione occidentale sostanzialmente eurocentrica – evidenziando come ormai la «storia della musica sembra aver poco a poco eroso i confini che una volta definivano la produzione musicale “contemporanea” nel senso che a quell’espressione si voleva dare: ovvero un fortilizio di sperimentazione da cui fosse possibile tracciare una topografia dell’oggi e dischiudere le movenze del futuro. Non che questo ruolo non esista più: semplicemente non esiste più un centro da cui è possibile esercitare quella funzione espressiva e vaticinante», (Marco Maurizi, La vendetta di Dioniso, Jaca Book 2018).
Volendo dunque tracciare un percorso in qualche modo empirico degli ultimi quarant’anni della produzione ascrivibile alla definizione di “musica contemporanea”, può essere utile ripercorrere i cartelloni di una realtà come la Biennale di Venezia, la cui programmazione musicale appare – nel bene e nel male – come una delle vetrine più indicative della musica dell’oggi nel nostro Paese. Iniziamo quindi dal 1985, anno in cui dal 12 settembre al 1° ottobre si è svolta la 42a edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea (Direttore del Settore Musica Carlo Fontana). Oltre a un ampio spazio del programma dedicato ad Andrea Gabrieli a 400 anni dalla scomparsa, la sessione più specificamente dedicata alla musica contemporanea viene titolata “Europa 50/80 – Generazioni a confronto”, comprendendo concerti e incontri con protagonisti quali, tra gli altri, Brian Ferneyhough, Gerard Grisey, Wolfgang Rihm, Marco Stroppa. Dieci anni dopo, nel 1995, il 46° Festival Internazionale di Musica Contemporanea che si svolse dall’1 al 30 luglio (Direttore del Settore Musica Mario Messinis) attribuì il Leone d’oro alla carriera a Luciano Berio (oltre al danzatore e coreografo statunitense Merce Cunningham) e propose un articolato programma con composizioni, tra le altre, di Thomas Adès, John Cage, Aldo Clementi, Luigi Dallapiccola, Morton Feldman, Adriano Guarnieri, Sofija Gubajdulina, Hans Werner Henze, Heinz Holliger, Witold Lutosławski, Steve Reich, Alessandro Solbiati, Wolfgang Rihm, Bernd Alois Zimmermann.
Scavalcato il nuovo millennio, dal 28 settembre al 9 ottobre 2005 la 49a edizione del Festival (Direttore Artistico del Settore Musica Giorgio Battistelli) propone un programma che prevede opere, tra le atre, di John Adams, Luca Antignani, Gavin Bryars, Niccolò Castiglioni, Silvia Colasanti, Luis de Pablo, Carlo De Pirro, Matteo Franceschini, Heiner Goebbels, Michael Jarrell, Pink Twins, Wolfgang Rihm, Rebecca Saunders, Michel van der Aa, Joji Yuasa e Frank Zappa. Procedendo più spediti annotiamo che dieci anni dopo – dal 2 all’11 ottobre 2015 – il 59° Festival Internazionale di Musica Contemporanea (Direttore Artistico del Settore Musica Ivan Fedele) ha assegnano il Leone d’oro alla carriera a Georges Aperghis mentre, se lo scorso anno la 68a edizione del Festival veneziano (Direttore Artistico del settore Musica Lucia Ronchetti) ha premiato Rebecca Saunders con il Leone d’oro alla carriera e l’Ensemble Modern con il Leone d’argento, in questo 2025 la 69ma edizione del Festival – in programma dall’11 al 25 ottobre e diretto da Caterina Barbieri – ha annunciato l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera alla compositrice e performer newyorkese Meredith Monk e del Leone d’argento allo statunitense di origine boliviana Chuquimamani-Condori.
La scelta del Festival della Biennale di Venezia è senza dubbio arbitraria – avremmo potuto, per esempio, fare lo stesso excursus attraverso i programmi del Festival di Donaueschingen (che vanta, peraltro, una significativa sessione dedicata al jazz) o di altre manifestazioni analoghe – così come altrettanto arbitraria appare la cadenza decennale della ricognizione – così facendo, infatti, abbiamo “mancato” alcune direzioni musicali per diversi aspetti significative, come quelle di Sylvano Bussotti (1989-1991) o di Uri Caine (2003) – ma tutto sommato ci ha permesso di ricostruire, per quanto limitato, uno spaccato di riferimento dei nomi di alcuni compositori che hanno segnato questi ultimi quarant’anni.
A completamento di questo percorso ci piace ricordare come, a pochi anni dalla sua nascita, sulle pagine del nostro giornale Alessandro Baricco, argomentando sull’uso pubblicitario della musica di Beethoven, poteva stigmatizzare «la tenacia ottusa di chi difende le gerarchie culturali vigenti, ritenendole eterne come precetti biblici. […] Se la tradizione non è solo un museo muffito di reperti altrui, ma la miccia della nostra immaginazione, essa pretende qualcosa di più di un devoto rispetto» (gdm, novembre 1987); mentre Franco Fabbri, trattando del fenomeno “Muzak”, poteva annotare come «l’esistenza della muzak pone questioni alle quali lo studioso e l’appassionato di musica (quella “vera”?) non dovrebbero sottrarsi. Se gli effetti (o gli affetti) di una certa musica sono così controllabili, addirittura programmabili, non è da rivedere qualche vecchia teoria formalista sul senso e sul significato musicale?» (gdm, novembre 1989).
A distanza di qualche decennio questi riferimenti relativi alle “gerarchie culturali” e al “senso” e al “significato musicale” credo possano essere prese in considerazione anche in merito al concetto di “musica contemporanea”. Tanto più che, se già all’inizio del XXI secolo «l’impulso a contrapporre la musica classica alla cultura pop non ha più alcun senso, né al a livello intellettuale né emotivo» (Axel Ross, Il resto è rumore, Bompiani 2009), solo qualche anno più tardi si poteva notare come «non ci si deve sorprendere se il mondo musicale sembra una torre di Babele, piena di innumerevoli voci che parlano lingue radicalmente diverse. Alcune di queste voci prendono spunto dai grandi innovatori: Stockhausen, Xenakis. Altri seguono direzioni indicate da Reich o Glass. Per qualcuno, il territorio fertile si trova ai confini tra la musica classica e il rock; per qualcun altro nel montaggio e nella trasformazione dei suoni registrati» (Paul Griffiths, La musica del Novecento, Einaudi 2014). Proprio l’elemento tecnologico in ambito musicale ci aiuta ad aggiungere un ultimo elemento di riflessione relativo al panorama della musica contemporanea rappresentato da quello che potremmo definire “postmodernismo musicale”: «In forme eterogenee, lo sviluppo della creatività elettroacustica e informatico-musicale è stato fattore partecipe e costitutivo del passaggio dalla tarda modernità artistica alla post-modernità. Al compimento di quel passaggio, le varie tendenze emerse negli ultimi anni del ’900 hanno fortemente stilizzato il fenomeno, fissandolo come codice post-modernistico in strategie di contaminazione linguistica, di riciclo e di citazionismo» (Agostino Di Scipio, Circuiti del Tempo, LIM – Libreria Musicale Italiana 2021).
Per concludere questa rapida – e per sua natura limitata – riflessione su una musica che oggi più che mai si confronta con le istanze estetiche, ideologiche e sociali contemporanee – ma anche con le transizioni digitale ed ambientale – può essere utile richiamare l’indagine che Kate Molleson (Il suono nel suono, EDT 2023) ha condotto su un gruppo di compositori “minori” (ma solo in apparenza) del Novecento: «Nel XX secolo intrepide menti di tutto il pianeta hanno imbrigliato i suoni della vita moderna. Hanno elaborato il rumore, il frastuono, i cambiamenti sociali, le nuove tecnologie, la guerra, la pace, la protesta, la spiritualità, la scienza, i loro stessi corpi e gli impavidi movimenti culturali e controculturali.» È molto probabile che tutto ciò prosegua anche in questo XXI secolo.