La musica antica che gira intorno PARTE I
Parlano Alessandrini, Bovi, Dantone
15 ottobre 2025 • 13 minuti di lettura
Nel 1989 Howard Mayer Brown e Stanley Sadie pubblicarono Performance Practice: Music before 1600, seguito poi da un secondo volume dedicato al dopo 1600 che tradotto da Renato Meucci è stato appena pubblicato dalla Accademia Nazionale di Santa Cecilia in collaborazione con le Edizioni Curci.
Nelle prime righe della prefazione alla raccolta di saggi di vari autori i due curatori scrissero “La 'musica antica', cioè la musica composta più di 40 anni fa (per parafrasare Johannes Tinctoris, il teorico del XV secolo che sosteneva che nessuna musica scritta più di 40 anni prima fosse degna di essere ascoltata) è stata coltivata in vari tempi e luoghi nella storia occidentale”.
Con tutto il rispetto e la considerazione dovuti al più importante teorico del Quattrocento, al quale si deve tra l’altro il primo dizionario di termini musicali, per noi oggi è vero il contrario perché non finiamo mai di scoprire e apprezzare musiche del passato, anche molto lontano, grazie alla interpretazione di antiche forme di notazione e alla continua scoperta di nuove fonti.
Negli ultimi quarant’anni, per usare l’unità di misura utilizzata da Tinctoris nel Prologo del suo Liber de arte contrapuncti, la prassi musicale storicamente informata è divenuta imprescindibile e gli studi sulla musica antica, che abbracciano i tre grandi periodi storici del Medioevo, Rinascimento e Barocco hanno finito generalmente per stimolare un approccio più consapevole delle prassi esecutive anche verso le musiche dei secoli successivi.
Per questo parte dei musicisti e direttori d’orchestra che si sono formati e specializzati nel campo della musica antica vengono oggi invitati a dirigere anche Mozart, Beethoven, o persino Wagner, e la visione di ciò che viene considerata musica antica è divenuta meno prescrittiva e piuttosto soggettiva a seconda dei punti di vista.
Tuttavia al centro di questa seppur generica categoria restano chiari certi confini segnati dai grandi pionieri della riscoperta di tanta musica del passato dimenticata, confini che dalla monodia e nascita della polifonia arrivano fino all’abbandono del basso continuo che segna il definitivo tramonto del Barocco.
L’interesse originario verso la musica antica è legato anche a un contesto più generale di rinnovamento politico, sociale e culturale della fine degli anni Sessanta e grazie ai precursori come ad esempio Gustav Leonhardt, Nikolaus Harnoncourt, Frans Brüggen, Christopher Hogwood, Jordi Savall, William Christie, Ton Koopman, e altri ancora, la musica antica è divenuta non soltanto parte del settore produttivo artistico ma anche un elemento fondamentale nella formazione di nuove generazioni di musicisti e studiosi.
A partire dagli anni Settanta si sono progressivamente moltiplicate le pubblicazioni di dischi, libri, partiture e sono nate rassegne e festival che hanno contribuito alla diffusione e alla conoscenza della musica antica, ma nella vivacità di questo scenario non sono mancate le polemiche e le contrapposizioni tra visioni teoriche, scuole di pensiero e modelli di interpretazione, impossibili da riassumere, in nome di concetti come autenticità, filologia, fedeltà storica, libertà creativa e via di seguito.
Ma far parlare alcuni tra i diretti interessati è forse la maniera migliore per cercare di capire che cosa sia accaduto in questo lungo periodo nel quali il movimento della musica antica, se si può ancora considerare tale, è cresciuto fino a rappresentare uno degli aspetti più originali e stimolanti della scena musicale internazionale.
Abbiamo dunque chiesto ad alcuni musicisti e studiosi della generazione che ha vissuto gli ultimi quaranta anni sulla scena della musica antica, di raccontare le loro esperienze e il loro modo di interpretarla.
I quaranta anni secondo Rinaldo Alessandrini tra Monteverdi e Bach
Possiamo dire che alla base di questi quaranta anni di attività con Concerto Italiano, compiuti lo scorso anno, campeggiano i nomi di Monteverdi e Bach?
«Si ma anche Vivaldi direi. La stampa straniera ha parlato delle nostre interpretazioni bachiane sempre in termini positivi e tuttora i brandeburghesi sono considerati una versione di riferimento e da italiano avere questi riconoscimenti non è cosa da poco.
Per quanto riguarda Monteverdi fa parte della nostra tradizione, ma non abbiamo fatto festeggiamenti molto particolare.- risponde Rinaldo Alessandrini
La nostra casa discografica, la Naïve, ha sottolineato questa ricorrenza nel presentare il cofanetto dell’integrale dei madrigali di Monteverdi, ma non so se è stata una coincidenza o una strategia.
Certo quarant’anni sono un traguardo, e nel momento in cui ti guardi indietro pensi a quanto sia importante essere un gruppo che ha resistito nel tempo e che è riuscito a lavorare confrontandosi con tutti i cambiamenti, affrontando situazioni in continuo movimento.
Oggi sono cambiate molte cose, ed esistono moltissimi gruppi, ma noi ne siamo contenti e ci rendiamo conto di essere un gruppo storico che probabilmente ha contribuito alla evoluzione di questa situazione stimolando i giovani a intraprendere percorsi analoghi. Oggi condividiamo lo spazio con tantissimi ensemble di alto valore e siamo una parte molto più piccola nella scena della musica antica.
Ma da “vecchi” a volte si ritorna ai primi amori e l’interesse che mi sta pervadendo nei confronti del madrigale è molto forte, e il gruppo è a un livello ottimale per quanto riguarda le voci e approdare a repertori sconosciuti è molto stimolante e il ritorno alle origini, al repertorio italiano del Seicento, è poi l’essenza della musica antica».
Come la definiresti?
«La musica antica, ancor prima di costituire un repertorio, costituisce una opzione linguistica, un vero e proprio idioma attraverso il quale il musicista sente di potersi esprimere con la maggiore efficacia possibile.
Ovviamente alcune preferenze strumentali possono indurre il musicista ancor più rapidamente e direttamente verso la musica antica, gli strumenti a tastiera, quelli a pizzico ed alcuni strumenti a fiato.
Ma credo che in generale la combinazione di questi due elementi sia determinante per lasciar comprendere al musicista di ritrovarsi di fronte a un sistema di comunicazione artistica attraverso il quale poter realizzare il meglio della propria sensibilità e sviluppare una competenza nella comunicazione artistica».
Come ti sei avvicinato alla musica antica?
«Nel mio caso è stata determinante una istintiva preferenza verso il repertorio settecentesco. Da allievo di pianoforte il mio repertorio preferito erano Bach e Mozart, ma l’incontro casuale con un clavicembalo è stato fulminante.
In Italia la situazione didattica della musica antica durante gli anni Ottanta dello scorso secolo non era molto interessante.
Quindi, oltre ad alcune esperienze maturate nei vari corsi estivi o masterclass, è stato l’ascolto, inteso come meccanismo di emulazione, ad indurmi a testare le soluzioni più diverse possibili.
Clavicembalisticamente parlando c’erano molte opzioni: Leonhardt, Koopman, Ross… e anche l’ascolto degli esiti orchestrali di Harnoncourt e Hogwood costituivano interessanti momenti di riflessione.
Ma intendendo la competenza esecutiva come un affare linguistico, sono state certamente le esperienze dirette soprattutto di musica da camera e di assieme a fornire al momento giusto le opportunità di verifica delle sintesi alle quali di volta in volta arrivavamo dopo periodi di studio e di preparazione.
Il tutto era ovviamente adeguatamente supportato da letture musicologiche di ogni genere».
In tutti questi anni la scena della musica antica è cambiata.
«Mi sembra che il livello di esecuzione strumentale abbia raggiunto misure di grande qualità, tecnica e musicale, ma credo ci sia ancora molto spazio per focalizzare più precisamente l’essenza musicale e tecnica del XVII secolo, soprattutto la prima metà.
Ma in generale c’è molta più coscienza di quello che rende convincente una esecuzione.
Forse la musica antica soffre oggi di un eccesso di spettacolarizzazione, quando soprattutto nel crossover, si mescolano del tutto inopinatamente elementi estranei al repertorio, che altro non fanno che declassare la natura musicale ed emotiva delle composizioni, e questo atteggiamento mi sembra stia fortificando nel pubblico una aspettativa completamente erronea.
Questo voler “ringiovanire” o attualizzare la musica antica rende paradossale l’aspetto intellettuale e speculativo di grande parte del repertorio, a cominciare al contrappunto seicentesco fino agli esiti più complessi della produzione bachiana.
Il risultato finale è un appiattimento delle aspettative musicali del pubblico, al quale si nega la possibilità di avvicinarsi a codici di comunicazione a volte molto complessi e sovrapposti alla identità culturali e linguistiche dell’Europa sei e settecentesca».
I quaranta anni secondo Patrizia Bovi alla ricerca del suono medievale
Con Micrologus avete da poco finito di celebrare il percorso importante fatto nel corso dei vostri quaranta anni di attività.
«Importantissimo, soprattutto perché per come abbiamo cominciato non era certo così scontato. Avevamo l'intenzione di creare un gruppo che facesse ricerche, specializzandosi in maniera professionale sulla musica medievale, ma il nostro spirito era un spirito di giovani pionieri in qualche modo che volevano anche cambiare il mondo. Sono cose che si fanno quando si è giovani e con un'energia fortissima, ma non pensavamo certo di riuscire ad arrivare così lontano, quindi è stato anche per noi un modo di riscoprire il nostro passato che è stato molto interessante, perché si va sempre avanti, senza pensare mai a quello che ha fatto e invece dopo quaranta anni fai anche un bilancio» risponde Patrizia Bovi
Nel tuo caso l’avvicinamento alla musica antica, e in particolare medievale, è legato al luogo nel quale vivi.
«Quello che mi distingue da altri cantanti e musicisti, è che ho cominciato da bambina perché vivo ad Assisi dove da settant’anni si celebra la festa del Calendimaggio nella quale la musica ha un ruolo importantissimo. Io avevo una voce graziosa e mi hanno insegnato un canto medioevale, ma non avevo la più pallida idea di cosa fosse. Era Kalenda Maya di Raimbaut de Vaqueiras e a nove anni andavo in giro portata per mano a cantarlo nelle diverse le scene del Calendimaggio della Nobilissima Parte de sopra, che è in competizione con la Magnifica Parte de sotto.
Dunque non conoscevo le canzoncine dei bambini, e ho iniziato con un brano di un trovatore medievale, poi crescendo ho cominciato ad interessarmi in maniera molto più attiva a questa festa, e a fare ricerca, anche perché per poter vincere dovevi trovare sempre delle cose nuove, stimolanti e soprattutto storicamente informate, perché il Calendimaggio ha una giuria fatta di musicologi, musicisti, storici eccetera, e questo per me è stato un grandissimo stimolo che mi ha poi ha portato inevitabilmente a costruire un percorso professionale. Lo stesso è accaduto per dei sono bravissimi storici dell'arte o del costume che hanno cominciato i loro studi grazie al Calendimaggio».
Sulla scena della musica antica predomina quella dell’epoca barocca, ma all’inizio della vostra carriera si stava riscoprendo la musica medievale.
«Nei primi anni ascoltavamo le interpretazioni di musica italiana fatte da ensemble stranieri, ma anche per via della nostra conoscenza della tradizione orale e non, era difficile condividere quella visione e quella vocalità.
Dopo aver studiato tanti trattati, sappiamo che la voce era il più possibile naturale, e con moderazione. Non si doveva cantare troppo forte, né verso il grave né verso gli acuti. Quindi abbiamo cercato di dare una visione anche specificatamente sonora, che fosse più vicina e rispettasse la lingua, la pronuncia, e il suono della musica italiana.
È così che abbiamo acquisito delle caratteristiche d'identità sonora molto riconoscibili, e lo stesso è vero ad esempio per l'ensemble Organum, inconfondibile al primo ascolto, o per il gruppo di Dominique Vellard. Capisco che nonostante i manoscritti con le notazioni e i trattati, non sappiamo come suonava quella musica ed è qualcosa di molto complesso da ricostruire. Comunque alla fine degli anni Settanta e durante gli Ottanta ogni gruppo aveva la sua tipicità il cui suono era riconoscibile».
Non è più così oggi?
«Andando avanti nel tempo si è persa, anche per via delle scuole che hanno cominciato a insegnare la musica medievale e rinascimentale, eccetera, contribuendo a creare una certa uniformità. I giovani usciti da scuole importanti come la Schola Cantorum di Basilea, hanno tutti più o meno lo stesso modo di cantare o di suonare e quindi poi giustamente all'interno di un mercato globale si muovono e si scambiano all'interno di molti gruppi. Il risultato è che questa riconoscibilità si è andata perdendo.
Ma c'è anche il fenomeno del voler rappresentare una novità sulla scena della musica antica, e per questo musicisti che facevano musica tardo manierista, del primo barocco, si sono messi a fare la musica medievale senza aver fatto studi specifici, con l'idea che si potesse tranquillamente cantare anche musica del Trecento utilizzando gli stessi sistemi retorici, e quindi applicando un'estetica più tarda a musica più antica.
Questo mi ha fatto pensare a un trattato di fine Cinquecento di Ludovico Zacconi che diceva che gli antichi cantavano quello che era scritto, e che si potevano aggiungere ornamenti ed espressioni alla musica più antica, facendola diventare più interessante. Ma era il punto di vista di un teorico che aveva già vissuto tutto il periodo della nascita del Madrigale e poi della seconda pratica.
In alcuni casi ci sono dei gruppi che fanno come Zacconi indicava, cioè prendono musica molto più antica e applicano a questa musica degli artifici espressivi di un repertorio più tardo.
Nel periodo manierista si è sviluppata un'estetica relativa alla musica e alle arti in genere, basata sulla provocazione e questo l'ho ritrovato in tante nuove formazioni di bravissimi musicisti, che entrano in un universo di provocazione, per stupire, e creare qualcosa di diverso e farsi notare cercando anche l’attenzione dei festival.
Da un punto di vista dell’onestà intellettuale è importante dichiarare e far capire cosa è invenzione e cosa è frutto della ricerca storicamente informata. Questo secondo me è un po' lo stato dell'arte dell'interpretazione della musica medievale e del primo rinascimento, dopo quaranta anni di esperienza, sia come gruppo che come artista.
Se non si rispettano le caratteristiche specifiche dei diversi repertori il rischio è che alla fine suoni tutto uguale…».
I quaranta anni secondo Ottavio Dantone tra retorica e affetti
Il termine musica antica è onnicomprensivo?
«Cos'è la musica antica? La musica di un tempo lontano dal nostro, un tempo più antico, ma che cosa significa? Certamente per me la musica antica è musica che ha un linguaggio, un'estetica lontana da noi, soprattutto oggi che consumiamo più musica del passato che non che del presente, per cui possiamo dire che quella dell'Ottocento ormai, soprattutto se eseguita con strumenti originali, è già musica antica.
Considero musica antica quasi Mahler, perché quando ho diretto Mahler in qualche modo la mia lettura era comunque condizionata dal passato rispetto al presente, quindi per me la cosa più importante esplorare e capire il linguaggio per poterlo non solo comprendere ma comunicarlo. È importante comprendere nel senso preciso del termine per collocare la musica antica nel suo tempo e darle il massimo grado di intensità emotiva». Risponde Ottavio Dantone
La musica barocca è comunque al centro del tuo lavoro con l’Accademia Bizantina.
«Innanzitutto tutto la mia formazione è stata molto empirica, perché ho iniziato da solo a quattro anni a leggere e scrivere la musica senza che nessuno in famiglia fosse musicista, quindi questo tipo di approccio ha senz'altro favorito il mio avvicinamento alla musica antica. Da piccolo, avevo nove o dieci anni, sono rimasto folgorato ascoltando in televisione il concerto in re minore di Bach per clavicembalo e orchestra, ma suonato al pianoforte da Armando Trovajoli accompagnato dall'orchestra ritmica della Rai. Questa musica mi ha letteralmente sconvolto, e poi sono stato fanciullo cantore del Duomo di Milano dove si faceva molta musica polifonia antica, vocale, e poi chiaramente i pionieri, Harnoncourt, Leonhardt, Brüggen. Quando ero ragazzo questi erano i nostri punti di riferimento.
All’epoca molti andavano all'estero a studiare, io invece per questioni anche economiche, la mia famiglia non era ricca, sono rimasto a Milano e sono capitato nella classe di Emilia Fadini, che per me è stata la folgorazione, perché lei è forse stata la più grande esperta di prassi esecutiva, e ancora di più, della relazione fra musica e retorica. E questa esperienza è stata determinante per il mio futuro.
Ancora adesso, quando leggo la musica antica, non posso prescindere dal tentativo di comprenderne il senso attraverso l'unico strumento che oggi abbiamo per poter arrivare a questo linguaggio così lontano, ovvero la relazione fra musica e retorica, così come è stata codificata, commentata e descritta da molti musicisti, nel Cinquecento, Seicento e Settecento, e l’importanza della teoria degli affetti. Tutto questo accostato chiaramente ad altri strumenti come i trattati sulla prassi esecutiva, ma la relazione fra musica e retorica e la sua descrizione in quell'epoca è alla base per la comprensione del senso musicale della musica antica».
Dall’epoca dei pionieri sono cambiate molte cose sulla scena della musica antica.
«Non sarò certo io a dire ai miei tempi...anzi devo dire che certamente il livello tecnico e il livello di conoscenza oggi è sicuramente maggiore di prima, quando per documentarsi bisognava andare a cercare i libri nelle biblioteche e c'era molta più fatica. Oggi si hanno molti strumenti a disposizione, ed è molto più facile, tutto può essere trovato online, tutte le biblioteche del mondo sono collegate, e c'è moltissimo materiale e quindi senz'altro le possibilità si sono moltiplicate. Rispetto a quando ero giovane io, a fronte di queste possibilità il musicista moderno si confronta con un pubblico numeroso e molto diverso.
Un tempo il pubblico era molto selettivo, e oggi i teatri sono più grandi e le sale principali accolgono anche la musica antica. Il rischio è che ci si adatti da un punto di vista estetico, da un lato è giusto perché comunque se si vuol fare musica antica in una sala grande bisogna comunque comportarsi da un punto di vista dinamico in un altro modo, ma non bisogna assolutamente modificare la consapevolezza, la conoscenza, la percezione estetica e del linguaggio in favore di un diverso modo di ascoltare la musica e un diverso tipo di ascoltatore. Voglio dire che certe volte i musicisti, anche i cantanti, rischiano di confondere la sensibilità e l'approccio moderno con quello antico per adattarsi alle aspettative del pubblico e della sala.
Con questo si rischia di perdere la genuinità del messaggio musicale. Quello che è importante è che arrivi intatto. L'orchestra può essere composta anche da cento elementi, ma il modo di suonare, il modo di parlare la musica deve rimanere lo stesso.
Sicuramente il livello dei gruppi, dei musicisti, tecnico in generale, è molto superiore ai miei tempi e probabilmente superiore anche a quello di quell'epoca. Ma bisogna fare attenzione a non confondere la tecnica e la conoscenza pura con il risultato estetico. Il risultato estetico deve essere assolutamente quello originale per salvaguardare il senso e l'emozione».