Il Teatro alla Scala e i suoi registi
Dall'Aida di Ronconi, 1985, alla Medea di Michieletto
24 settembre 2025 • 4 minuti di lettura
Ho inziato a scrivere sul GdM dal primo numero, con due pezzulli con la mia sigla e un articolo firmato da Luca Ronconi. Avrebbe dovuto essere un'intervista, mentre stava allestendo Aida alla Scala per il 7 dicembre 1985, con Lorin Maazel sul podio. Era venuto a casa mia, fra i suoi soliti balbettii aveva divagato su Bajazet di Racine (storia analoga a quella di Aida) e scambiato affettuosità col mio gatto che gli era saltato addosso facendo le fusa. Il GdM aveva poi preferito che il testo fosse a firma del regista, così avevo trasformato la chiacchierata in un articolo. Ma senza farglielo leggere, perché eravamo amici e si era fidato di me, probabilmente su consiglio del gatto. All'epoca il GdM come mensile cartaceo non pubblicava recensioni, è solo da quando è sbarcato on line, che ho cominciato ad avere rapporti con la lirica non da semplice spettatore. La Scala punto di riferimento principale.
Due mesi prima della nascita del GdM, Claudio Abbado aveva diretto al Piermarini Viaggio a Reims di Rossini con la regia di Ronconi e all'Ansaldo Prometeo di Nono nell'arca ideata da Renzo Piano. Avrebbe poi chiuso con la Scala nel 1986 con un indimenticabile Pelléas et Mélisande firmato da Antoine Vitez. Dopo di che è iniziata l'era Muti con grande quantità di titoli verdiani di alta qualità, anche se i ricordi più vivi sono la prima assoluta di Montag aus Licht di Stockhausen nel 1988 (col compositore alla consolle in platea) e due inaugurazioni di stagione con Muti sul podio, nel 1987 con Don Giovanni di Mozart per la regia di Giorgio Strehler e nel 1996 con Armide di Gluck firmata da Pier Luigi Pizzi. Oltre a Dialogues des Carmélites di Poulenc con la regia di Robert Carsen nel 2004 all'Arcimboldi, dove la Scala aveva traslocato.
La presenza di Barenboim direttore musicale (a seguito del referendum in teatro che aveva provocato l'uscita di Muti) è segnata dal 7 dicembre 2006 col Don Giovanni firmato Carsen, che durante l'ouverture faceva cadere il sipario svelando uno specchio gigante che rifletteva la sala, trascinando così il pubblico nell'opera stessa. All'inaugurazione della stagione successiva Barenboim ha poi diretto Tristan und Isolde con la regia di Patrice Chereau, uno degli spettacoli più straordinari degli ultimi decenni. Il gesto di Tristano che s'inginocchia davanti a Isotta, prende un lembo della sua veste e la porta alle labbra, rimane un esempio di come un regista possa entrare nel cuore di una vicenda senza nulla stravolgere.
Analogo effetto lo aveva ottenuto Peter Brook, nel Don Giovanni di Ex-en-Provence, arrivato al Teatro Strehler di Milano nel 1998, con Daniel Harding sul podio. Durante il sestetto finale comparivano i fantasmi del Commendatore e di don Giovanni, che sedeva accanto a donna Elvira e a un tratto la guardava disperato, rendendosi conto di non aver capito nulla della vita. Questo genere di zampate geniali sono rarissime e difficilmente trovano spazio nelle attuali regie. Grosso modo tre le impostazioni in voga oggi. La prima si avvale di una profusione di apparati tecnologici, che sopperisce alla drammaturgia con cambi di scena continui ed effetti speciali, cari ai videodipendenti. È stata ultimamente riproposta con Tosca da Davide Livermore che in passato ha firmato molte analoghe regie, sempre con Riccardo Chailly sul podio. Anche se il direttore ha avuto la sua migliore inaugurazione di stagione con Boris Godunov firmato da Kasper Holten nel 2022. L'altro filone registico è l'attualizzazione a ogni costo, anche rischio di perdere per strada qualcosa. Un esempio lo ha dato Damiano Michieletto con Medée di Cherubini, andata in scena lo scorso anno. Spettacolo riuscito, ambientato in un appartamento dei nostri giorni, con le voci dei bambini destinati al massacro, che dava spessore alla tragedia della gelosia, ma dimenticava che la protagonista è una maga. C'è un'altra formula spesso praticata, citiamo per comodità ancora Michieletto, ed è quella d'insinuare un particolare non previsto dal libretto, ma che ne cambia i connotati. Nella Salome di Strauss del 2023, viene per esempio suggerito che lei sia stata violata bambina da Herodes, un dettaglio noir che modifica l'intreccio in una vendetta a freddo, ma sminuisce la carica erotica inventata da Oscar Wilde, compresa la danza dei sette veli.
La spasmodica ricerca di un punto di vista inedito da parte dei registi è meglio soddisfatta dalle nuove opere, piuttosto che dai titoli tradizionali. Così è stato per Pierre Audi, da poco scomparso, quando alla Scala ha messo in scena in prima mondiale Fin de Partie di Kurtag nel 2018. Come per il recente Il nome della rosa di Filidei, per il cui successo la regia di Damiano Michieletto e le scene di Paolo Fantin sono stati determinanti, facilitati proprio dalla mancanza di precedenti coi quali confrontarsi.
A parte il ristretto repertorio contemporaneo, c'è un altro versante che lascia ampia libertà alla messa in scena ed è l'opera barocca. Non offre ingombranti psicologie da esplorare né situazioni realistiche da rispettare, tutto è solo racconto e ascolto. E in questo ambito la Scala negli ultimi anni è stata meritevole, tanto da avere ormai una consolidata sezione di strumentisti barocchi in orchestra. Utilizzata lo scorso anno per Orontea di Antonio Cesti, diretta da Giovanni Antonini, con la regia di Robert Carsen. Una scelta azzeccatissima.