Weill nostro contemporaneo

Alla Scala Chailly dirige due Weill con la regia di Irina Brook

Dittico Weill (Foto Brescia Amisano)
Dittico Weill (Foto Brescia Amisano)
Recensione
Teatro alla Scala, Milano
Dittico Weill
18 Marzo 2021

Il dittico di Kurt Weill ha avuto vita burrascosa alla Scala, per essere stato interrotto durante le prove quando Chailly è subentrato a Mehta sul podio di Salome ed essere rimasto in forse fino all'ultimo, causa i contagi in teatro. Ora è andato miracolosamente in porto (visibile sul sito della Scala e il 27 marzo su Rai 5) e l'esito è stato felice. Chailly è riuscito a rispettare sia la leggerezza estrema della partitura sia a sottolinearne l'aggressività sonora. Di prim'ordine le due protagoniste: in Die sieben Todsünden la grintosa Kate Lindsey come Anna Uno, mentre Lauren Michelle (Anna Due d'indubbia presenza scenica) le ruba solo poche battute, ma diventa vocalmente più importante nel Mahagonny-Songspiel, che segue senza soluzione di continuità e aggiunge alle sette città del vizio un'ottava, quella del denaro. La regista Irina Brook ha immaginato un non-luogo "dopo la catastrofe", come del resto lo è Mahagonny, con gesti e oggetti che diventano emblematici di un vano tentativo di vita. Non a caso non è ricorsa a una scenografia ad hoc, ma è andata a rovistare nel magazzino della Scala all'Ansaldo, scegliendo quanto le serviva. Ha così creato in proscenio un mare di bottiglie di plastica e in scena una zattera-pedana alla deriva, che è bar, abitazione degradata, dove agiscono cinque presenze maschili, fratelli e genitori delle due: Elliott Carlton Hines, Andrew Harris (in veste ora femminile ora maschile), Matthäus Schmidlechner, Michael Smallwood, Martin Chishimba. Alle loro spalle vengono di tanto in tanto proiettate delle sequenze in bianco e nero della loro esistenza miseranda in roulotte. A rendere palpabile questa atmosfera desolata è la recitazione estremamente curata in ogni dettaglio, in ogni controscena, che tuttavia non sempre riesce a supplire alla mancanza di drammaturgia.  

C'è da meditare sulla regia "povera" di Irina Brook, adeguata a un periodo in cui il mondo dello spettacolo stringe la cinghia, perché può servire da esempio nel futuro, sia per evitare gli sprechi di denaro, ma anche il vacuo gigantismo degli allestimenti fine a se stesso. Da segnalare infine un'imprevista appendice musicale a chiusura di spettacolo. Dopo l'ultimo re minore scritto da Stravinskji, la regista ha aggiunto proditoriamente la registrazione di Alabama Song di Jim Morrison, con due ballerini che intanto scompigliano il mare di plastica. Un'appendice rock che in qualche modo lascia aperta la speranza nel futuro, dopo le tante cupezze di Kurt Weill e Bertold Brecht. Un bel regalo di questi tempi.