Padova Jazz 2 | Santi alla ribalta

David Murray e Black Saint al Teatro Verdi

Recensione
jazz
Evidentemente, in compagnia dei Black Saint David Murray sente di poter godere appieno del suo stato di grazia e la musica del quartetto sa trasmettere un ampio spettro di emozioni positive: la voglia di ascolto e di dialogo reciproco, la capacità di sorprendersi e sorprendere, abbinata ad un entusiasmo contagioso per esplorare fino in fondo le diverse anime dei tanti (coerenti) paesaggi sonori della musica improvvisata di matrice black: dai poliritmi sempre dietro l’angolo, al rhythm and blues di “Red Car” dedicato al maestro Butch Morris, alle ballad appena scritte per Obama o scolpite fra i classici da Strayhorn che sanno rievocare il “soffio” di un Ben Webster, al solare e camaleontico incedere di brani di qualche decade fa, come “Morning Song”, cui i quattro sanno ritagliare addosso nuovi vestiti e ampi spazi funky - complice anche la tendenza a dilatare intorno al quarto d’ora ogni brano, lasciando spazio ad ognuno dei componenti del quartetto in veste di solista.

Hamid Drake alla batteria non nasconde il piacere per l’interplay con colleghi a lui tanto affini, ma anche per la possibilità di imprimere cambi di direzione che rendono il flusso del concerto una narrazione ricca di colpi di scena e di dinamiche dal forte impatto narrativo, dando alla batteria lo stesso rilievo melodico degli altri tre strumenti, in un delicato esercizio di dosaggio di energia e misura che richiama Max Roach anche nel modo di strizzare dal charleston guizzi e cambi di passo spiazzanti e coinvolgenti al tempo stesso.



La stessa felice combinazione di qualità umane e spirito d’avventura è condivisa da Marc Cary al pianoforte e Jaribu Shahid al contrabbasso: se Murray è l’artista che forse più di ogni altro ha saputo raccogliere la lezione di Roland Kirk e Albert Ayler nel trasformare senza soluzione di continuità il flusso narrativo in una bussola capace di trasportare a latitudini e longitudini diametralmente distanti fra loro, piano e basso sanno fargli abilmente da contrappeso aprendo ad ogni brano uno scenario inaspettato quanto ben delineato che sorprende per la sapienza e la freschezza della rilettura melodico-ritmica e, all’occorrenza, volutamente minimalista, nei casi in cui Shahid decide di assegnare questo ruolo ad un colore, fra l’ampio ventaglio di quelli di cui dispone il suo strumento.

Sornione, ballerino, sempre un passo a lato a e avanti alle soluzioni ritmiche dei partner, il leader è dispensatore generoso di un suono inimitabile al tenore, capace di ritrovare il respiro circolare e gli armonici dei giorni migliori, quelli in cui si partiva almeno in otto per lanciarsi in viaggi stellari: oggi basta essere in quattro. Santi!

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