Il ritorno di Ryley Walker
Il tour di Ryley Walker dopo la disintossicazione rilancia il chitarrista americano, tra folk acido, psichedelia e songwriting di altissima fattura

C'è un posto speciale esattamente al centro dell'America a sei corde. Ci si arriva partendo dal Delta del Mississippi e risalendo gli Appalachi in direzione Greenwich Village. Poi, voltate le spalle al blu dell'Atlantico, con la California lontanissima alla fine dell'orizzonte, si punta dritti su Chicago fino a perdersi nelle pianure del Midwest. È da lì che viene Ryley Walker, 31 anni di clamoroso talento, Tim Hardin e Tim Buckley nel cuore, John Fahey e Leo Kottke sulla punta delle dita, e un pugno di dischi che dal folgorante debutto del 2014, All Kinds of You, hanno scandito le tappe di un percorso luminoso, tra folk acido, psichedelia, songwriting di altissima fattura e fingerpicking scintillante.
Poi, un anno fa, più o meno di questi tempi, la dolorosa e inattesa frenata: «La mia vita è in pericolo» il messaggio a cuore aperto affidato ai social. «Ho un disperato bisogno di prendermi del tempo per fare chiarezza con l'aiuto di un professionista». Lo spettro della depressione, l'abuso di alcol e di droghe, un lungo tour cancellato e alla fine l'inevitabile ricovero in una clinica per disintossicarsi. Mesi e mesi di buio totale (e di silenzio), dai quali Ryley Walker è riemerso alla fine dell'estate scorsa con un nuovo disco, Little Common Twist, il secondo in duo con il batterista di Chicago Charles Rumback (bellissimo, manco a dirlo), e con l'inseparabile Guild di nuovo tra le mani. Gioia e giubilo! Con tanto di tour riparatore a riallacciare i fili sparsi del discorso interrotto.
Tour che ha fatto tappa anche a Milano, nella salottiera intimità dello spazio Germi (pensato, voluto e gestito come luogo di contaminazione da Francesca Risi, Manuel Agnelli, Rodrigo D'Erasmo e Gianluca Segale), per una di quelle serate da incorniciare e da appendere alla parete dei concerti memorabili.
Voce e chitarra acustica, Pharoah Sanders sulla maglietta, il cappellino da bravo ragazzo americano e Jackson C. Frank in filodiffusione a preparargli la strada con “Blues Run the Game”, il ritrovato Ryley Walker ha dispensato con il sorriso pietre luccicanti e perle preziose. A partire dalla lunga cavalcata di “The Roundabout”, trasformata, con il discreto aiuto del delay, in un raga lisergico degno del Sandy Bull di Inventions: un crescendo implacabile di variazioni e di concitazione squarciato solo dai graffi precisi della voce, ferma e profonda come ai bei tempi. Non da meno l'onirica “Sullen Mind” e la strepitosa “Primrose Green”, in bilico tra fascinazioni West Coast alla CSNY e ineludibili rimandi al Tim Buckley di Happy Sad. Un colpo dritto al cuore, infine, “If I Were a Carpenter”, inchino dovuto e commovente al nume tutelare Tim Hardin, e “Over the Hill”, a tirare in ballo John Martyn e i cugini d'oltre oceano. Bentornato mister Walker.
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