Il ritorno di Ryley Walker

Il tour di Ryley Walker dopo la disintossicazione rilancia il chitarrista americano, tra folk acido, psichedelia e songwriting di altissima fattura

Ryley Walker Germi
Ryley Walker (foto dalla pagina Facebook di Germi)
Recensione
pop
Germi, Milano
Ryley Walker
09 Febbraio 2020

C'è un posto speciale esattamente al centro dell'America a sei corde. Ci si arriva partendo dal Delta del Mississippi e risalendo gli Appalachi in direzione Greenwich Village. Poi, voltate le spalle al blu dell'Atlantico, con la California lontanissima alla fine dell'orizzonte, si punta dritti su Chicago fino a perdersi nelle pianure del Midwest. È da lì che viene Ryley Walker, 31 anni di clamoroso talento, Tim Hardin e Tim Buckley nel cuore, John Fahey e Leo Kottke sulla punta delle dita, e un pugno di dischi che dal folgorante debutto del 2014, All Kinds of You, hanno scandito le tappe di un percorso luminoso, tra folk acido, psichedelia, songwriting di altissima fattura e fingerpicking scintillante.

Poi, un anno fa, più o meno di questi tempi, la dolorosa e inattesa frenata: «La mia vita è in pericolo» il messaggio a cuore aperto affidato ai social. «Ho un disperato bisogno di prendermi del tempo per fare chiarezza con l'aiuto di un professionista». Lo spettro della depressione, l'abuso di alcol e di droghe, un lungo tour cancellato e alla fine l'inevitabile ricovero in una clinica per disintossicarsi. Mesi e mesi di buio totale (e di silenzio), dai quali Ryley Walker è riemerso alla fine dell'estate scorsa con un nuovo disco, Little Common Twist, il secondo in duo con il batterista di Chicago Charles Rumback (bellissimo, manco a dirlo), e con l'inseparabile Guild di nuovo tra le mani. Gioia e giubilo! Con tanto di tour riparatore a riallacciare i fili sparsi del discorso interrotto. 

Tour che ha fatto tappa anche a Milano, nella salottiera intimità dello spazio Germi (pensato, voluto e gestito come luogo di contaminazione da Francesca Risi, Manuel Agnelli, Rodrigo D'Erasmo e Gianluca Segale), per una di quelle serate da incorniciare e da appendere alla parete dei concerti memorabili. 

Voce e chitarra acustica, Pharoah Sanders sulla maglietta, il cappellino da bravo ragazzo americano e Jackson C. Frank in filodiffusione a preparargli la strada con “Blues Run the Game”, il ritrovato Ryley Walker ha dispensato con il sorriso pietre luccicanti e perle preziose. A partire dalla lunga cavalcata di “The Roundabout”, trasformata, con il discreto aiuto del delay, in un raga lisergico degno del Sandy Bull di Inventions: un crescendo implacabile di variazioni e di concitazione squarciato solo dai graffi precisi della voce, ferma e profonda come ai bei tempi. Non da meno l'onirica “Sullen Mind” e la strepitosa “Primrose Green”, in bilico tra fascinazioni West Coast alla CSNY e ineludibili rimandi al Tim Buckley di Happy Sad. Un colpo dritto al cuore, infine, “If I Were a Carpenter”, inchino dovuto e commovente al nume tutelare Tim Hardin, e “Over the Hill”, a tirare in ballo John Martyn e i cugini d'oltre oceano. Bentornato mister Walker.

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