Il corpo collettivo del pop
Burt Bacharach in concerto alla Fenice
Recensione
pop
Mentre Burt Bacharach avanza un po’ incerto verso il proscenio in un diluvio di applausi la prima cosa che mi viene in mente è la centralità del corpo, della sua presenza, nell’immaginario pop, nella storia stessa dell’ultimo secolo.
Siamo in un Teatro La Fenice calorosissimo e ipnotizzato da Bacharach e la sua figura (a ben 86 anni, chapeau) è una sorta di feticcio attorno a cui ruota tutto: il concerto – piacevolissimo e ben costruito – poteva essere musicalmente lo stesso anche senza di lui, ma sarebbe sembrata una cosa tristissima e priva di senso.
Suona ancora bene il pianoforte, Burt, e "dirige" la band con piccoli gesti che potrebbero anche non servire, ma a cantare sono principalmente Josie James, John Pagano e Donna Taylor, che si spartiscono il prezioso canzoniere con consumata eleganza. Tutto perfetto, nessun dettaglio fuori posto.
Senza di lui però non avrebbe alcun senso, senza l’eleganza un po’ blasé delle sue parole roche, senza quel ciuffetto di capelli bianchi che i più giovani hanno imparato a conoscere magari attraverso la partecipazione a film come Austin Powers…
Se hai scritto una canzone di successo hai il mondo in pugno, figuriamoci se ne hai scritte decine e decine (molte meravigliose, alcune un po’ sopravvalutate, ma che ti restano in testa e non vanno più via).
Un corpo che storicamente c’è e non c’è, che è però imprescindibilmente centrale: è stata infatti spesso la voce di qualcun altro a rendere celebri i pezzi di Burt, Dionne Warwick ovviamente, Dusty Springfield, Aretha Franklin, ma anche il falsetto ormai datato di Christopher Cross in “Arthur’s Theme” (avevo una decina di anni, la radio non trasmetteva altro e non potevi fare altro che sognare anche tu “Between the moon and New York City”), ma la figura asciutta di Burt è una sorta di amuleto senza tempo, con quel sorriso obliquo molto yankee, capace di evocare serate a base di drink colorati e belle donne dal decolleté acceso di perle.
Come una sorta di DNA condiviso, si attorcigliano in un’elica romantica e sognante classici come “The Look Of Love”, “Raindrops Keep Falling On My Head”, “Walk On By”, “Alfie”, “I'll Never Fall in Love Again”, “On My Own”, la platea diventa un sommesso e rispettoso karaoke – a volte sollecitato dallo stesso Bacharach.
Canzoni che in un modo o nell’altro tutti conoscono (magari dalla pubblicità di un dado da brodo come accadde alla storica “Magic Moments”) e che nel concerto sfilano con ritmo da YouTube, un accenno, massimo un minuto e mezzo, un “aaaah questa che bella!”, un “ma anche questa era sua non me lo ricordavo” e via a ascoltarne un’altra, in un crescendo di allegria e di senso di collettività easy listening che contagia tutti.
Nella parte finale del concerto accenna a cantare anche Bacharach, con una voce dolcemente malferma, ma al “corpo” Bacharach si perdona tutto e c’è spazio per i bis di rito e per una “session” di strette di mano al pubblico che ha qualcosa di liturgico nella sua necessità.
Perché del corpo collettivo del pop siamo tutti, volenti o nolenti, una molecola incapace di smettere di fischiettare “I Say a Little Prayer”…
Siamo in un Teatro La Fenice calorosissimo e ipnotizzato da Bacharach e la sua figura (a ben 86 anni, chapeau) è una sorta di feticcio attorno a cui ruota tutto: il concerto – piacevolissimo e ben costruito – poteva essere musicalmente lo stesso anche senza di lui, ma sarebbe sembrata una cosa tristissima e priva di senso.
Suona ancora bene il pianoforte, Burt, e "dirige" la band con piccoli gesti che potrebbero anche non servire, ma a cantare sono principalmente Josie James, John Pagano e Donna Taylor, che si spartiscono il prezioso canzoniere con consumata eleganza. Tutto perfetto, nessun dettaglio fuori posto.
Senza di lui però non avrebbe alcun senso, senza l’eleganza un po’ blasé delle sue parole roche, senza quel ciuffetto di capelli bianchi che i più giovani hanno imparato a conoscere magari attraverso la partecipazione a film come Austin Powers…
Se hai scritto una canzone di successo hai il mondo in pugno, figuriamoci se ne hai scritte decine e decine (molte meravigliose, alcune un po’ sopravvalutate, ma che ti restano in testa e non vanno più via).
Un corpo che storicamente c’è e non c’è, che è però imprescindibilmente centrale: è stata infatti spesso la voce di qualcun altro a rendere celebri i pezzi di Burt, Dionne Warwick ovviamente, Dusty Springfield, Aretha Franklin, ma anche il falsetto ormai datato di Christopher Cross in “Arthur’s Theme” (avevo una decina di anni, la radio non trasmetteva altro e non potevi fare altro che sognare anche tu “Between the moon and New York City”), ma la figura asciutta di Burt è una sorta di amuleto senza tempo, con quel sorriso obliquo molto yankee, capace di evocare serate a base di drink colorati e belle donne dal decolleté acceso di perle.
Come una sorta di DNA condiviso, si attorcigliano in un’elica romantica e sognante classici come “The Look Of Love”, “Raindrops Keep Falling On My Head”, “Walk On By”, “Alfie”, “I'll Never Fall in Love Again”, “On My Own”, la platea diventa un sommesso e rispettoso karaoke – a volte sollecitato dallo stesso Bacharach.
Canzoni che in un modo o nell’altro tutti conoscono (magari dalla pubblicità di un dado da brodo come accadde alla storica “Magic Moments”) e che nel concerto sfilano con ritmo da YouTube, un accenno, massimo un minuto e mezzo, un “aaaah questa che bella!”, un “ma anche questa era sua non me lo ricordavo” e via a ascoltarne un’altra, in un crescendo di allegria e di senso di collettività easy listening che contagia tutti.
Nella parte finale del concerto accenna a cantare anche Bacharach, con una voce dolcemente malferma, ma al “corpo” Bacharach si perdona tutto e c’è spazio per i bis di rito e per una “session” di strette di mano al pubblico che ha qualcosa di liturgico nella sua necessità.
Perché del corpo collettivo del pop siamo tutti, volenti o nolenti, una molecola incapace di smettere di fischiettare “I Say a Little Prayer”…
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