Hoffmann a Hollywood

Alla Monnaie nuovo allestimento dell'opera di Offenbach firmato da Warlikowski 

I racconti di Hoffmann (Foto Bernd Uhlig)
I racconti di Hoffmann (Foto Bernd Uhlig)
Recensione
Teatro della Monnaie di Bruxelles
I racconti di Hoffmann
10 Dicembre 2019 - 02 Gennaio 2020

Che avrebbe fatto discutere, era prevedibile, tutti i lavori di Krzysztof Warlikowski lo hanno fatto finora. Ed anche in questo caso  il regista polacco ha spinto sull’innovazione e la trasposizione immaginando i racconti d’Hoffmann ad Hollywood ispirandosi alle diverse edizioni del film “A Star is Born” , ben quattro a partire da quella del 1937 all’ultima del 2018 con Lady Gaga, mescolando insieme stili e riferimenti dagli anni ‘30 ad oggi. Ed il poeta Hoffmann che nel libretto originale infine è invitato a rinunciare all’amore delle donne per dedicarsi alla poesia, qui diventa invece un produttore che lancia in diversi film – i tre racconti – la sua Stella e, come nei film “A Star is Born”, più lei cresce più lui invece cade in basso, sempre più ubriaco e mendicando alla fine un lavoro. Il finale a sorpresa, con Stella che a sipario chiuso riceve un Oscar, rende infine comprensibile anche la scena iniziale in cui si vede un Hoffmann chiuso in casa ed ossessionato dall’igiene, un’anticipazione della fine. Se il primo atto lascia quindi inizialmente perplessi, anche per la direzione d’orchestra di Alain Altinoglu è un po’ troppo lenta, alla fine l’idea registica appare ben intellegibile una volta composto il quadro completo. Anche se la sostituzione del fine “esprit” parigino con quello ben più cinico dello star system americano stride un po’ con la deliziosa e raffinata musica di Offenbach. Funzionano invece le aggiunte di dialoghi in inglese e far cantare la maggior parte delle arie davanti ad un microfono come se si stessero realizzando delle registrazioni. 

Hoffmann nel primo cast è interpretato dal tenore americano Eric Cutler, presenza scenica, voce melodiosa e potente, grandi doti anche d’attore, perfetto per il ruolo che ha, infatti, già interpretato più volte in passato. Al suo fianco, le parti di Olympia, Antonia, Giulietta e Stella sono stati invece affidate al soprano francese Patrizia Petibon, al debutto nel ruolo, in Olympia un po’ penalizzata nelle colorature dalle sottolineature di meccanicità che il regista ha voluto darle (da notare che appare all’inizio con la testa bendata, come se appena sottoposta a quella chirurgia estetica che fabbrica molte star), in Antonia libera poi tutto il suo lirismo e regala momenti, insieme a Cutler, di grande intensità. Ma tra  le voci, la bella sorpresa della serata è il basso ungherese Gabor Bretz nei panni di Lindorf, Coppelius, dottor Miracle e capitano Dapertutto: bel timbro profondo, incisivo, preciso, elegante. Peccato solo per il trucco da Joker, il pagliaccio cattivo, ormai visto e rivisto. Assai godibile anche Michéle Losier, il mezzosoprano canadese che interpreta la Musa e Nicklausse: tra i momenti più belli a cui partecipa c’è la Barcarola del terzo racconto ambientato a Venezia che il mezzo balla con il soprano su una piattaforma girevole. Bravi in generale tutti gli interpreti, una menzione è doverosa per il baritono-basso Sir Willard White che debutta con la consueta classe nei ruoli di Luther e Crespe, ed pure il coro, istruito da Martino Faggiani, che riesce ad essere compatto e dall’effetto molto potente nel finale. Ci si perde un po’ in tanti ambienti e stili assemblati insieme – teatro, studio di registrazione, bar – scene e costumi non sono particolarmente felici, con anche una stanza con mega schermo che va su e giù, ma gli inserti video sono curati e pertinenti e ben si integrano nello svolgersi del racconto. Interessante infine anche l’effetto di duplicare in prospettiva chi canta non più davanti ad un microfono ma ad una telecamera piazzata al entro della scena. Uno spettacolo quindi in crescendo, pieno di idee, con anche l’orchestra diretta da Altinoglu che negli ultimi due atti trova i giusti tempi e contribuisce al successo nel suo complesso dello spettacolo, anche se Offenbach ne esce un po’ tradito.