Biennale 4: La musica che gira intorno

Riflessioni finali sull'edizione 2013

Recensione
classica
La musica che gira intorno. Quella del sistema wave field synthesis, al centro del concerto "21st Century Cori Spezzati": composta da 192 altoparlanti e 8 subwoofer, è una tecnologia che riguarda non solo la diffusione, ma anche la creazione stessa della musica, consentendo a noi che l’ascoltiamo, circondati da una gabbia di piccole casse, di percepire sempre al meglio la spazializzazione del suono. Proviamo l’esperienza (che magari a chi è nato e cresciuto nel nome di un mp3 ascoltato dalle casse di un computer sembrerà ancora più fantascientifica) dapprima con un madrigale di Monteverdi, in cui la soprano Roberta Mameli interagisce con la tiorba e una seconda voce registrata, per poi immergerci in una composizione che in quanto a rapporto con lo spazio e con la possibilità di venire ricreata non ha nulla da invidiare a nessuno, La lontananza nostalgica utopica futura di Luigi Nono. La musica che gira intorno. Quella della violinista Barbara Lüneburg che si muove come previsto tra i vari leggii posti, "caminante" con un pesante rumore di tacchi che non è, come qualcuno maligna a mezza bocca, una svista, quanto piuttosto un’ulteriore sottolineatura della possibilità di fusione tra i suoni reali e quelli registrati su nastro. Non si possono che chiudere gli occhi per immergersi completamente nell’esperienza. Magari qualcuno ne approfitta per farsi un pisolino, a me l’esecuzione pare interessante, anche se non sempre le relazioni tra parti suonate e parti registrate innescano la magia, ma data l’aleatorietà che la partitura concede, ci può anche stare. Se i pezzi di Monteverdi e Nono sono adattati per wave field synthesis, quello della coreana Ji Youn Kang è invece scritto apposta ed è anche quello che inevitabilmente sfrutta al meglio le possibilità del sistema. Ispirata a rituali sciamanici coreani in cui i musicisti attraversano la città coinvolgendo i cittadini, la musica della compositrice è densa di ritmi e di suoni rombanti, che a volte si muovono in cerchi vorticosi e che tengono sempre alta la possibilità emozionale del lavoro. Un’elettronica che dialoga con la tradizione e che riflette in modo acuto sul ruolo "intermediale" dei diffusori utilizzati. Un’elettronica fresca e che profuma di terra e vento, mi piace molto questa musica che gira intorno.

La musica che gira intorno. Quella di Luciano Berio e Tempo Reale. Siamo questa volta seduti nel più tradizionale assetto da auditorium delle Tese, ma circondati da altoparlanti e nelle mani elettroniche sapienti di Francesco Giomi e Damiano Meacci. È un incanto "da tavola", oltre che da favola, Altra Voce, con il flautista Michele Marasco e la mezzosoprano Monica Bacelli seduti come due professori universitari in attesa di un esaminando. Un pulviscolo coloratissimo, quello della voce e del flauto che si sovrappongono senza fretta e che si accendono come pagliuzze dorate che danzano attorno alle nostre orecchie. Una magia fatta di semplicità, di tessuto vivo della materia sonora. Il pubblico è rapito, non c’è alternativa. È poi il turno di Ofanim, altra perla dell’ultimo periodo di Berio. Il coro di voci bianche della Maîtrise de Radio France entra elegantissimo nella sua divisa bianca e nera. Qualcuno di loro sembra più in età da uscir con il fidanzato o la fidanzata e andare in motorino che non da candido infante, ma la loro bravura è incantevole, evocando frammenti dal Cantico dei Cantici e dal libro di Ezechiele in un continuo gioco di specchi con due gruppi strumentali di percussioni, ottoni e legni ben governati da Danilo Grassi. Nel finale l’ingresso di Esti Kenan Ofri, con la sua voce che sa di terra, dolore, di tradizione popolare, è magari non calibratissimo, ma intimo a sufficienza per chiudere il senso di una composizione in cui Berio mette tutta la sua arte e il suo mestiere, accesa da timbri pervasi da echi americani, come nel caso del clarinetto e del trombone, e anche qui resa vibrante dalla spazializzazione di Tempo Reale. Uno dei concerti più belli. La musica che gira intorno.

Ci avviciniamo alla fine di questo mio piccolo diario dalla Biennale Musica 2013 – il tempo di ascoltare anche lo splendido concerto finale con il magnifico coro a cappella Le Cri de Paris a far brillare tre intense composizioni di Marco Stroppa, Luca Francesconi e soprattutto Mauro Lanza, che con Ludus de morte regis costruisce una irresistibile partitura di rumori, fischi, voci, pernacchie, come se Morricone incontrasse Carl Stalling alle prove di un coro! – e con tutta questa musica che gira intorno mi torna in mente la canzone di Ivano Fossati che porta questo titolo. Perché in questi giorni di musicisti che "tengono i propri anni al guinzaglio" ne abbiamo incontrati, così come di musica che "non ha futuro" se ne è ascoltata abbastanza. Ne ho parlato già nelle precedenti puntate e non voglio ripetermi, anche perché credo che ci siano molti spunti interessanti da cui muovere anche nelle prossime edizioni.

Magari partendo da qualche numero: a un conto veloce, su un centinaio di compositori presenti nel programma più di ottanta sono europei, solo quattro americani, solo cinque o sei provengono da Asia o Oceania. Questione di relazioni e di economie, direte voi. Certamente. Ma non solo. Aprirsi a altre tradizioni, altri linguaggi, altre geografie, mi sembra piuttosto necessario, se si vuole provare a rimettere in moto tutta una serie di dinamiche di senso culturale che possano anche uscire dalla sala da concerto (o nella sala stessa fare entrare davvero il mondo). ("Perché l'America cosí come Roma / gli fa paura / e il Medio-Oriente che qui da noi non riscuote nessuna fortuna" continua intanto imperterrito Fossati…) Non si tratta certo di fare della Biennale una sorta di Expo musicale, ci mancherebbe. Così come è chiaro che la sensibilità del direttore possa e debba funzionare da stimolante filtro, per evitare che – come è successo qualche volta in precedenti edizioni – l’inclusione nel cartellone di esperienze "altre" sia segnata dalla occasionalità, da un malcelato esotismo o dalla ricerca non troppo convinta di un consenso più ampio che poi non dialoga con il resto della proposta. Si tratta di avere voglia di fare qualche coraggiosa scommessa, di rimettere in gioco qualche parametro che a volte si dà per scontato e che forse soffiandoci via la polvere è meno fascinoso di quanto sembra e può diventare invece un multiforme elemento da ricalibrare. Perché alla fine le persone quello che ascoltano è la musica che gira intorno. Che non è sempre bella né tanto meno necessariamente di qualità. Ma che spesso è bella, spesso di qualità, spesso fatta da "uomini (e donne) così poco allineati" e in grado di raccontare le culture del contemporaneo, con le loro contraddizioni e le loro energie. Una musica che solo se condivisa, scaldata tra le mani, fatta vivere nelle strade e nei prati, nelle case o negli iPod, anche nella stessa sala da concerto (cui sarebbe ingenuo negare la mai sopita potenzialità di dispositivo per una concentrazione all’ascolto che altrove è sempre più improbabile) può ancora raccontarci qualcosa di noi che non sappiamo. "Sarà la musica che gira intorno / quella che non ha futuro / Sarà la musica che gira intorno / saremo noi che abbiamo nella testa /un maledetto muro"

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