Aida in tempo di guerra
La messinscena di Damiano Michieletto nata a Monaco nel ‘23 riproposta a Firenze con Zubin Mehta sul podio

Quello che abbiamo visto giovedì al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, per l’87.ma edizione del festival omonimo, è qualcosa di più di una mera attualizzazione, è un duro e coinvolgente richiamo all’oggi, alle stragi e alle violenze che sono sotto gli occhi di tutti, sostenuto dal modo di concepire il teatro di Damiano Michieletto, regista simbolo di una visione della regìa d’opera in vivo contrasto con le attese dei melomani tradizionalisti. Ma in questo caso, e ben più che a Monaco dove lo spettacolo nacque due anni fa (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti, drammaturgia di Mattia Palma, movimenti coreografici di Thomas Wilhelm), crediamo che gran parte del pubblico, quotidianamente sottoposto all’angoscia dell’impotenza per ciò che è intollerabile, sia rimasto convinto da un’operazione che trasformava l’Egitto in un teatro di guerra, in cui la casta sacerdotale è sostituita dai signori dell’esercito, e il messaggero che porta la notizia dell’invasione etiope fa il suo racconto con il corpo di un bambino morto sulle braccia. I due primi atti si svolgono in una palestra-rifugio dove le donne, con Aida in testa, cercano di prendersi cura dei bambini sopravvissuti, e la vita, l’amore e persino la gioia si ritagliano caparbiamente i loro spazi, un tema che ritornerà nel finale di cui meglio diremo più oltre, mentre la nera cenere della distruzione cala dalle crepe aperte dalle bombe, e alla fine formerà un monte che sarà anche la tomba dell’ultimo atto. Non che il tutto non abbia qua e là parecchie sbavature e notazioni inutili, però la forza evocativa di Michieletto complessivamente prende slancio e decolla, e lo fa soprattutto nel trasformare in qualcosa d’altro tutte le occasioni di grandiosità, i divertissements e le seduzioni monumentali da grand-opéra, a partire dai famosi stupendi ballabili. Invece delle danze mistiche delle sacerdotesse celebranti l’investitura di Radames ha luogo una bizzarra cerimonia di vestizione dei guerrieri; la danza dei moretti si trasforma in una festicciola povera per i bambini rifugiati, divertiti da una ragazza sui trapezi; tutta la scena della marcia trionfale è una lugubre celebrazione militaresca in cui il Faraone decora i generali feriti, mutilati, in carrozzella; la scena finale ci mostra la morte di Radames e Aida soffusa dai fantasmi di gioie passate o sperate, un ballo popolare con tanto di violino, fisarmonica e palloncini, recitata dai figuranti in un sognante ralenti, una scena realizzata alla perfezione e che ha veramente avvinto l’attenzione del pubblico. Ovviamente non sono mancate alla fine le contestazioni, ma, diremmo, minoritarie rispetto agli applausi. .
Nessuna contestazione ma la solita accoglienza trionfale per Zubin Mehta che dirigeva. Mehta ha da sempre l’Aida fra le sue opere d’elezione ( pensiamo all’edizione discografica con Leontyne Price e la Filarmonica d’Israele) e anche a Firenze l’ha fatta più volte, per cui abbiamo ritrovato tante cose preziose della sua visione dell’opera “egiziana” di Verdi, cose che già ci avevano colpito in occasioni precedenti, dal preludio nel suo emozionante crescere dalla tenuità cameristica al tono di tragedia, all’introduzione ammaliante di molli orientalismi del terzo atto, al duetto finale, bello come sempre. Mancava però, purtroppo, la capacità di tenuta d’insieme, che è venuta più volte a mancare e ha portato diverse incertezze nel coordinamento fra orchestra e palcoscenico, e non ci sembra un rilievo da poco. Molto festeggiato anche il cast, forse oltre i suoi meriti. Aida e Radames erano Olga Maslova e Seok Jong Baek, che hanno fatto il loro dovere e non hanno mancato le loro grandi pagine, ma senza particolare carisma, meglio per incisività e autorevolezza l’Amneris di Daniela Barcellona, il resto del cast era composto da Daniel Luis de Vicente, Amonasro, Simon Lim, Ramfis, Manuel Fuentes, il faraone, Yaozhou Hou, il messaggero, Suji Kwon, la sacerdotessa. Veramente eccellente la prestazione del coro preparato e diretto da Lorenzo Fratini, non solo per valentìa esecutiva ma per grande condivisione dell’impostazione dello spettacolo.
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